La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 2

Testo di pubblico dominio

Non farti nemmeno sentire a dir queste sciocchezze! Maria Dora piano piano si carezzava il grembiulino, il bel grembiule merlettato che le stava così bene. — Oh, io, per esser chiari, gliel'ho già detto: sa, signor Andrea? vogliono che lei mi sposi... Le piaccio? — Guarda mo'! — fece il padre inorridito. E lui? — Lui ha riso... con quegli occhiacci di gatto notturno che mi fanno paura. — Ha riso? Bene ti sta! — Ha riso, ma non ha detto nè sì, nè no... Del resto chi può vantarsi di conoscere quell'uomo? Quando mi guarda ho voglia di scappare. Ma non posso. Anche Mattia dice che ha gli occhi magnetici. — Mattia è uno scemo. — Poi, — riprese Maria Dora, senza badargli, — questo grande scienziato è anche un asino, mi pare. Séguita a curar Giorgio, e Giorgio deperisce a vista d'occhio. Novella è rimasta in piedi l'intera notte... povera Novella! — E ti ricordi che uomo era quando sposò tua sorella? — Ha sempre tossito, papà; questo me lo ricordo. — Basta! — fece con un sospiro il padre; — se Dio vuole così... Poi si volse a guardar lo scemo: — E tu, Marcuccio, che fai? — Mio fratello è molto occupato! Non lo disturbare. — Vespa!... — le gridò il padre, con un gesto come per iscacciarla. — Ora Marcuccio ne ha trovata una fresca, — riprese Maria Dora. Ogni volta che vede Novella, si mette a ridere e le canticchia sottovoce: Ti ricordi? ti ricordi, sorelluccia, com'erano belle le margherite? — Cosa voglia poi dire, Dio lo sa! Papà Stefano scosse il capo con maggiore tristezza e volse uno sguardo compassionevole sopra il suo figlio scemo. Era giovinetto, nel pieno vigore dell'adolescenza, ricco di mirabile ingegno, dedito a studî profondi, appassionato cultore di lettere, musicista oltremodo virtuoso, quando una malattia cerebrale, repentina e violenta, lo ridusse in fin di vita. Guaritone, quasi per un triste prodigio, dell'antico intelletto non gli restò che un barlume fioco, fra le tenebre dell'idiozia. Or camminava solitario, di camera in camera, nella casa paterna, sempre operoso ed inquieto, come se non potesse rubare un attimo alle urgenti sue fatiche. Era d'alta statura, un po' sbilenco, e gli pesava sopra le spalle cadenti un enorme cranio rotondo, coperto d'una specie di vello rossastro, qua folto e là rado, che lasciava intorno ai padiglioni dell'orecchie un cerchio di calvizie lucente. Atona e d'un color terreo la faccia imberbe, con occhi rotondi, senza ciglia, un po' gonfi, un po' malvagi, aveva la bocca larga, tumida, che per lo più rideva, d'un riso privo di giocondità, discorde come la nota falsa d'uno strumento logorato. Gli era nella sua demenza rimasto quel desiderio di gloria che accende alle grandi opere gli intelletti sani, e si reputava per uomo illustre, invaso com'era da una mania di celebrità. Filosofo pensatore, poeta, affastellava senza requie l'una su l'altra grandi pagine cariche di stramberie: aveva nel suo stato demente conservata la mania del capolavoro. Poi, quando il suo cervello era stanco di questa operosa fatica, trattosi da una tasca del suo giubbone il gomitolo di lana, cominciava con una pazienza da monaca ad intrecciare il punto a calza. E ne faceva di lunghe striscie, interminabili, disuguali, come se in quella ruvida lana tessuta raccontasse una storia di sè, una lunga storia tormentosa ed inutile, senza principio e senza fine, per gli ebeti come lui... Talvolta, nell'ore di maggior lucentezza, quando una fiamma di lirismo traversava il suo povero spirito rabbuiato, o quando più forte pulsavan nella sua carne d'adolescente l'arterie della vita, quando inconsciamente vedeva succedere intorno a sè qualcosa d'insolito, e gli altri o goderne o soffrirne, allora una memoria lontana delle sue musiche dimenticate gli si ridestava nell'attonito cuore, nel vacuo cervello, come se la sola voce che potesse ancor metterlo in comunione con le cose fuggenti, con l'enigma dell'anime altrui, fosse la parola musicata, il trillo della corda sonora, la nota limpida che gli sgorgava sotto l'archetto, che si rompeva bruscamente in una sciocca risata... E incominciava, sul logoro violino, standovi sopra quasi convulso, ad eseguire una Canzone; la sola che rammentasse fra le musiche un tempo a lui familiari, unica melodia sopravvissuta nella sua morte interiore. Così pareva che dicesse la sua tetra Canzone: «Io sono il funerale d'un pover'uomo, — che è morto di malinconia; «non c'è nessuno che dica un requiem per l'anima mia... «Non c'è nessuno che mi tessa — una ghirlanda con le sue mani... «Ahimè!... la campana del Tempo — non dice che «ieri» e «domani». «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? «Lo scheletro ride e risponde: — Lontano, lontano, chissà... «Io sono un viandante senza lena, che torno da un regno di morti, portando il mio scheletro su la schiena; «coi piedi mi batte i ginocchi, — mi stringe il collo con le mani: «Cammina!... — mi dice ridendo, — la vita comincia domani.» «Io sono il funerale d'un pover'uomo, — che è morto di nevrastenia; «non c'è nessuno che mi pianga: neanche l'anima mia... «Allor domando al mio scheletro: — Sai dirmi dove si va? «Risponde: — Nel regno dei vivi, che ha nome l'inutilità.» «Io sono il fiume senza sorgente, che scorro solo per confondermi nel mare, nel mare, inutilmente... «Se corri, — mi dice, — si arriva stasera o domani mattina... «Mi dice: — Tu amavi una morta... cammina, cammina, cammina! «— Sei stato a una festa da ballo, — mi dice, — con lei che ballava «leggera, frusciante, leggera, — vestita, pareva, di biondo... «Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto ballare nel mondo? «Io sono il funerale d'un pover'uomo, che è morto di misantropia... «— Sei stato in un letto, odoroso, — con lei che giaceva supina, «tremante, sperduta, tremante, — nel solco del letto profondo... «Perchè, — se non vuoi che ti picchi, — mi hai fatto tremare nel mondo? «Io sono un viandante senza meta, che torno da un regno di morti, — e vado a cercare altri morti, che sono i miei figli lontani... «Cammina: la vita comincia domani, domani, domani... Così diceva, o pareva dicesse, la Canzone Disperata sul violino singhiozzante dello scemo. — E tu, Marcuccio, che fai? — domandò il padre, dopo averlo guardato lungamente. Marcuccio, infastidito levò il capo dal quaderno con un riso attonito. — Ah!... ah!... buon giorno babbo; che vuoi da me? Parlava con una voce opaca, lenta, come se facesse uno sforzo mentale per trovare le frasi necessarie; nel parlare non variava mai tono, cuciva insieme le sillabe senza inflettere la voce, senza mutare lo sguardo vitreo. — Che vuoi da me? Non si può mai aver pace in questa casa! Mi si disturba. Ed io non posso perder tempo. Il professore Andrea Ferento mi ha domandato i miei manoscritti per farli pubblicare in città. Il padre gli battè amichevolmente una mano su la spalla: — Da bravo, Marcuccio, vieni a goderti un po' di sole. — Non ho tempo, ti dico; debbo terminare un capitolo. — Mettiti almeno più presso alla vetrata; lì, nel tuo cantuccio non v'è aria. Al mattino fa bene respirare. E tu, — disse a Maria Dora, — aiùtalo, zucconcella! Prendi quella sedia senza far cadere nulla. Non appena la sorella fece per ubbidire, e pose la mano sul violino, lo scemo si levò di scatto, iracondo: — Non toccare, sorellastra! Faccio da me. — Càspita!... — esclamò la fanciulla, per celiare di quella bizza. E si stropicciò le dita nel grembiulino come se avesse toccato qualcosa di rovente. Poi disse al fratello, per divertirsi: — Marcuccio, come ti chiami tu? Egli la fissò un momento, stando ritto su la persona dinoccolata: — Io? Mi chiamo il professor Marcuccio; Marcuccio Landi, per bacco! professore d'Università. E la sorella: — Bravo, Marcuccio; siedi e lavora. To', lasci cadere il tuo

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Argomenti: sforzo mentale,    gatto notturno,    grande scienziato,    maggiore tristezza,    sguardo compassionevole

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