La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 61

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porpora imperatoria. Non camminai fuori dalla strada; naturalmente mio, per forza di cose, doveva essere il privilegio del quale mi cinsi. Dunque perchè condannereste l'uomo che solo accelerò di qualche istante una inguaribile agonìa, quando quest'uomo, per i legami che l'uniscono al suo stato, al suo tempo, alla sua razza, già si è reso complice di mille uccisioni? Perchè mai sarebbe criminosa quella volontà singola dell'uomo, che, divenuta una volontà collettiva, non lo sarebbe invece più? Infatti non comprendo perchè domani mi sia lecito, anzi mi sia doveroso, abbattere con un colpo di fucile, anche proditorio, un essere umano il quale non ebbe in mio confronto altra colpa se non quella di nascere due palmi al di là dal mio confine, mentre sarà impedito, a me scienziato, curvo sopra un morituro che vedo già cadavere, d'instillargli nell'arteria quella goccia rapida che lo toglierà dal suo tormento, quand'io, libero uomo, lo stimi necessario, quand'egli, libero uomo, parimenti a me lo chieda, e quando — ascoltátemi bene, perchè in questo è l'essenziale, — quando l'affrettare di così pochi attimi una sicura morte, vuol dire schiudere ad altre creature la via della implacabile vita e della umana felicità. In verità non vi sono ideali: l'uomo è solamente un rapinatore. E poi dirvi ancor questo: «Mi sono arrogato il mio naturale arbitrio di ribelle che a nessuno ubbidisce. Ho ucciso, perchè fui certo anzi tutto che questo privilegio fosse degno di me. Ho ucciso, perchè il saper dare quella morte fu l'atto di coraggio più spaventoso ch'io potessi compiere; ed il coraggio mi piace, perch'esso è veramente un istinto della natura, la quale è tutta coraggiosa, da' suoi oceani alle sue tempeste. Ed ho inoltre ucciso perchè, in un minuto secondo, ho sentito di amare più una donna che la ragione totale di me stesso, più una donna che l'infinito errore umano, più una donna che il mondo... O giudici sereni, io sono medico e gli uomini ho curati con amore; molti medici dopo di me insegneranno a vivere fisicamente felici; un profeta è in cammino verso il domani, dal quale sarà cantato il dio che muore con l'uomo, dal quale sarà benedetta la magnifica Inutilità della vita... Questo dio, nel quale io credo, assolve, o giudici, il mio delitto» Sì, certo: così avrebbe parlato Andrea Ferento, davanti un'assemblea d'uomini suoi pari. Ma chi lo chiamava per iscolparsi era l'ubbriaco volgo messo in tumulto da un pugno d'aizzatori, era, una volta di più nell'immutabile storia, la ciurma contro il capitano. A costoro, a tutti costoro, poco importava di vendicare un morto. Ma che davanti all'opaca uniformità dei loro istinti plebei un uomo inflessibile osasse divenire il più solo ed il più alto ribelle; questo non si voleva. Che davanti all'immensa titanica marea di servitù baldanzosa, — la quale, dopo aver decretati a suo piacimento quelli ch'essa ritiene i veri diritti dell'uomo, sotto le bandiere mendaci della fratellanza e dell'uguaglianza, con forsennata rabbia, si scaglia all'assalto del potere, — un tale osasse affermar loro che non erano in verità nè liberi nè uguali, nè degni men che mai di esercitare sul mondo la loro disgregata e povera tirannìa: questo non si voleva. Ebbene, egli si sentiva pieghevole ancora come a' suoi primi vent'anni! Una sete di vivere e di vincere lo stringeva soffocantemente alla gola. Bastava solo provocarlo: e questa era la provocazione. Chi fossero i sobillatori, poco gl'importava conoscere, tanto li disprezzava. Erano avversari, e bisognava combattere. Confessare a questi giudici: — «Sì, ho ucciso,» — voleva dire arrendersi. Ma egli non s'arrenderebbe che morto. Era un laido e piccolo episodio della sua guerra: nondimeno bisognava passar oltre. Nasceva novamente l'equivoco singolare che già era sorto all'inizio del suo cammino, quando coloro che avevan nel ribelle intravveduta la figura del tribuno, e supposto ch'egli si facesse l'alfiere delle lor piccole pretensioni, s'accorsero di scoprire in lui, nel medesimo tempo, il repressore, il despota, l'uomo che adoperava le folle anzichè portarne le bandiere, — e l'accusarono di tradimento. Per contro egli sapeva di aver ubbidito a sè stesso in un modo magnifico ed orrendo. Ma ora verrebbe una folla amorfa, che si radunava solo per poter tiranneggiare, che solo coesisteva in forza del suo selvaggio istinto micidiale, verrebbe una folla nemica d'ogni temerità solitaria, per contestargli quell'atto supremo d'indipendenza, del quale s'era creduto degno come d'un rosso mantello di porpora, come d'un privilegio terribile inerente alla sua sovranità. Davanti a questa folla ostile, che cercava solo un pretesto per abbatterlo, sarebbe stato vano sostenere il diritto che a lui sovranamente apparteneva. A tali giudici egli direbbe: — «Non è vero: non ho ucciso.» Poich'essi non potrebbero mai ammettere nè comprendere il suo delitto, bisognava negarlo; poichè, di fronte alla legge da essi dettata, Andrea Ferento non valeva più che l'ultimo ed il più briaco degli spazzaturai, bisognava ch'egli riuscisse a debellare questa legge assurda, nel solo modo che aveva in suo potere, cioè negando. Era un tragico momento, nel quale non si poteva concedere il lusso di affermare la verità; non poteva tendere inanemente i polsi, e dire: — «Incatenátemi!» — poi camminare fra due sgherri in mezzo alla folla sibilante. Forse ancor lontano per essi era il giorno del trionfo, e per lui della sua fine. Se costoro possedevan le lor plebi, e con parole capziose le infocavano per avventarle nella piazza, egli a sua volta ritroverebbe la sua schiera, minore forse di numero, ma temeraria e bene apparecchiata. Guerra per guerra, egli si sentiva capace tuttavia di mietere nelle lor stesse file, di farsi camminare dietro il popolo, solo perchè passava: maravigliosa virtù che posseggono i capitani. Si sentiva capace ancora d'affrontare il linciaggio e tramutarlo in ovazione, come al tempo de' suoi primi vent'anni, quand'egli amava, più che la potenza, il potere. Non puranco venuto era il giorno che Andrea Ferento si riducesse a vivere nella tebaide, nè recisi aveva i legami tessuti fortemente in altre ore di battaglia, quando si accinse a dare quella scalata che poi gli parve inutile; non era del tutto un condottiero senza esercito, un capitano senza bandiere. Si voleva la testa di Andrea Ferento? Egli non darebbe la sua testa. Era necessario mentire? E mentirebbe. Era necessario far pesare il suo pugno di ferro su le amministrazioni arrendevoli? E questo si farebbe. Se un bando era gridato contro la testa del ribelle, per infiggerla sopra un'asta e portarla in giro ad ammonimento dei servi riottosi, egli non darebbe la sua testa! Ma, per un'ultima volta, nella iraconda gioia del pericolo, griderebbe loro in faccia la sua parola magnifica: «No!» La testa di Andrea Ferento valeva ben altra battaglia, e non la porterebbe in trionfo, per trastullo dei chierici e di liberti, la lancia di un Salvatore Donadei! Tali furono le parole ch'egli si disse, con quella terribile volontà che in lui sopraffaceva ogni altro spirito e che poteva ugualmente renderlo capace così d'un eroismo come d'un delitto. Udita la notizia volare di bocca in bocca per le strade in tumulto, egli era tornato a piedi verso la propria casa ed aveva salite le scale, pallido, ma senz'affrettarsi. Ella già lo attendeva da oltre mezz'ora; lo attendeva sdraiata con pigrizia sopra un lungo divano, immersa nella quiete azzurra del crepuscolo che addormentava la stanza. Da qualche settimana ella ormai passava i giorni, talvolta le notti, nascosta nella casa dell'amante; non era per nulla preparata, nulla sapeva del repentino dramma. Egli entrò, accese il lume, si guardarono, si baciarono, poi Andrea le tese un giornale, dicendo: — Leggi. Il suo dito, nel segnare il titolo a grossi caratteri, nemmeno tremava. Ella, súbito, non comprese. Da

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Argomenti: piccolo episodio,    implacabile vita,    naturale arbitrio,    ragione totale,    uomo inflessibile

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