La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 60

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le dita fra i capelli, con l'attitudine di una persona che stia dibattendosi fra la diffidenza e la tentazione; poi disse con frasi veloci: — Certo, certo, quanto ella è qui venuto a riferire non manca d'impensierirmi gravemente... Non ho luogo di sospettare ch'ella si faccia illusioni, tanto più che uno di loro, se bene intesi, deve appartenere alla famiglia d'un uomo che ho molto apprezzato e venerato: Giorgio Fiesco. — Io, per l'appunto. Eravamo fratelli, fratellastri... — precisò Tancredo, con modestia e con malinconia. — Ottimamente, ottimamente! E poi non vedo quale scopo li avrebbe indotti a venire da me, se le cose non fossero quali mi affermano... Però, ecco, vedano, a me preme anzi tutto far loro una dichiarazione. Ed è questa: che nessun motivo d'animosità privata, nessuna ragione d'odio, nè di rancore, nè di passione mia propria, mi spinge ad accanirmi contro quest'uomo cui loro si propongono di muover guerra. In lui non vidi finora che l'avversario del mio principio, il negatore della mia fede, ma anzi un bello e nobile avversario. Non potrei dunque partecipare a tutto ciò, se non nella mia veste di uomo politico e per quel dovere imprescindibile che mi viene imposto dalla mia qualità di Direttore d'un giornale cattolico. — S'intende... — mormorò il Metello con un fil di voce. — Insomma sentano, — concluse il Donadei; — sarebbe assai meglio se loro potessero venire a casa mia, dove si discuterebbe con maggiore tranquillità. I suoi occhi profondi guizzavano dietro gli occhiali, con una rapidità sinistra. — A' suoi ordini, onorevole, — rispose il Metello. — E quando? — Per esempio, se loro son liberi, anche stasera... IV Ormai la denuncia era stata deposta in mani al Procuratore del Re; da ventiquattr'ore i giornali divulgavano a grosse lettere la notizia stupefacente; l'infamia stava per assalirlo impreparato e solo. Una mattina, d'improvviso, lo si avvertì per telefono della denunzia. Credette ancora d'essere in tempo a salvarsi, od almeno ad evitare lo scandalo pubblico, allorchè, la sera del giorno stesso, nel tornare verso la propria casa, dove ignara e nascosta l'amante lo attendeva, udì gridare dagli strilloni l'accusa irremediabile, che trascinava nel rumor della strada l'alto potere del suo nome. «La Crociata» era uscita con un supplemento, poche ore dopo il mezzodì; conteneva un articolo scaltro e feroce firmato «Ergo», ch'era il nome giornalistico del Donadei. L'edizione andò a ruba; gli altri giornali, usciti a breve distanza l'un dall'altro, furono saccheggiati; la vita cittadina s'interruppe, la strada cominciò a guerreggiare di partigiani e d'avversari. Tutto ciò era come l'ondata che soverchia la diga ed ogni cosa travolge; accadeva nella vita uniforme d'ogni giorno il tragico fatto clamoroso che innamora e spaventa la folla. Un giorno viene, in cui l'uomo destinato ad essere troppo solo deve dare la sua battaglia. Era l'ora, ed egli lo sentì. Lo sentì con una specie di riso convulso che gli torse l'anima, con una specie di piacere selvaggio e d'implacabile crudeltà. S'apparecchiò alla lotta in un momento, in un baleno fu pronto. Allora s'accorse d'aver avuta infatti l'oscura intuizione che già da tempo qualcosa pur s'andasse tramando nell'ombra contro di lui. Ma quando s'avvide che ormai era tardi per ogni riflessione, più che stupore e stordimento, n'ebbe un senso quasi febbrile di gioia. Gioia di sentirsi affrontato, gioia di potersi difendere, gioia di vincere quello stato d'animo, indeciso e pressochè aspettante, nel quale si era sentito sperdere in que' giorni pieni d'ambiguità che seguirono il suo delitto. Ma ora, d'un tratto, si ritrovava come una volta l'uomo cui era necessario aver molti nemici ed implacabili, avere davanti a sè una forza infuriata e serrata, contro la quale misurarsi a viso aperto. Bellissimo era, benchè orrido, questo giorno che lo toglieva dal suo torpore! Adesso finalmente gli era necessario difendersi contro mille: questo lo lavava dall'aver infierito, egli, così forte, contr'un uomo solo. V'eran ancora intorno a lui nemici attenti e gagliardi, persone che di soppiatto avevano spiata la sua ombra, ed apertamente ora si radunavano per abbatterlo dal suo piedestallo, poichè li molestava! Il morto, quegli che la sua mano aveva ucciso, non era più un povero fratello buono ed esausto, ma una moltitudine selvaggia, piena di muscolo e di potenza che dalla violenta strada si avventerebbe contro lui per sopraffarlo, per contendergli la vita, per esercitare contro l'uomo incurvabile una vendetta soffocante. Ma egli non avrebbe indietreggiato! Poichè gli pareva che tutto fosse lecito nel mondo, tranne che indietreggiare. Senza dubbio, davanti un'assemblea d'uomini avrebbe potuto arrogarsi di giudicare l'opera sua? Qual'era la giustizia umana che chiamerebbe Andrea Ferento a sottomettersi come un reo? Orbene, ancora una volta questo si vedrebbe fra lui e loro, da uomo ad uomo, i mille contr'uno! Ancora una volta egli griderebbe loro in faccia la sua parola magnifica: «No!» Senza dubbio, davanti un'assemblea d'uomini suoi pari, si sarebbe alzato e avrebbe detto: — «Sì, ho ucciso.» Ad uomini capaci di comprenderlo avrebbe fatta la storia breve, barbara, del suo delitto: «Ascoltate. Uccidere perchè si odia, è facile; uccidere perchè si teme, più facile ancora. Ma spegnere la creatura che si ama, la creatura fraterna, indifesa e debole, spegnere l'uomo al quale si darebbe la propria vita serenamente se questo fosse necessario, non vi sembra, o giudici, l'estremo più insuperabile della volontà umana? Uccidere perchè il vostro cervello, nitido, sicuro, vi dice: — «Sì, lo puoi. Sì, lo devi!» — mentre il cuore convulsamente si rifiuta e mentre sapete, o giudici, che in quell'atto rinnegherete l'intera vostra vita, l'intera opera vostra... non è forse una prova di volontà così possente che pare non la contenga e non la possa compiere il cuore d'un uomo? Eppure io lo feci, con questa mano che ancor oggi non trema. Lo feci, perchè dovetti risolvere da me stesso un dilemma invero terribile: — O affrettare appena l'agonia d'un fratello condannato, o lasciare che finisse con un dramma la vita radiosa e fertile della donna che amavo. Qui è tutto il problema, o giudici sereni: — Abbiamo noi il diritto, noi che studiammo la morte come una scienza precisa, noi che salvammo tante creature, le quali non appartenevano al nostro cuore, noi che vediamo il segno infallibile delinearsi nella materia moritura, abbiamo noi il diritto, in certi casi, d'impadronirci della morte? E chi me lo vieta, se io non credo nell'uomo divino, come non credo nel miracolo che nessuno mai vide? Perchè dunque rimarrei spettatore neghittoso d'un breve indugio davanti al sepolcro inevitabile, quand'esso deve trascinare con sè, nel suo calamitoso cerchio, un'altra vita gonfia di albore, la quale ambisce a splendere con libertà e con gioia? La natura non m'insegnò a rispettare ciò che vive; tanto meno ciò che muore. Io, che studiai me stesso e le ragioni del mio essere con aperti occhi, son nato dalla strage, son venuto al mondo in mezzo alla strage, sarò afferrato nel dissolvimento perpetuo che sta nell'atomo e nell'immenso come una bufera universale. Nella distruzione di tutte le cose non ho fatto che accelerare d'un lieve attimo il rumore fuggevole d'un'agonìa. Per compiere questo atto infinitesimo di libertà ho dovuto lottare con disperazione contro tutte le assurde paure che incatenano la coscienza dell'uomo; ho vinto, perchè ho saputo esserne più forte. O giudici sereni, rispondete per me a quella turba urlante, che soltanto la mia coscienza è sopra l'opera mia, poichè appartengo alla dinastìa che promulga le leggi ma non le soffre, che inventa il bene ed il male, ma non può in alcun modo esserne disciplinata. Se venuta è l'ora ch'io mi nomini, vi dirò che sento gravare su le mie spalle il peso della

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Argomenti: breve distanza,    uomo politico,    povero fratello,    riso convulso,    articolo scaltro

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