La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 17

Testo di pubblico dominio

ginocchia un po' salienti: un braccio pendeva dal lenzuolo con la mano torta, come se nell'affanno avesse cercato di ghermire, di stringere; soltanto nella gola denudata era il gonfiore di uno sforzo continuo; nelle palpebre qualche battito. Gli pareva d'essere accanto ad un altro malato, ad uno dei tanti che aveva ritolti alla morte o vegliati nelle agonie; gli sembrava quasi d'essere l'artefice davanti all'opera, e di doverla compiere con quella tranquillità di spirito che pareva separarsi dal suo cuore d'uomo; gli sembrava di non esser altro che una macchina, attenta e paziente. Se una vita era in pericolo, a lui toccava salvare quella vita: questa era la sua missione nel mondo, questo gli appariva semplice, come al timoniere il mettere su la barra la sua mano forte, come allo spegnitore d'incendi l'avventarsi dentro il fuoco. Macchinalmente mescè dentro un cálice alcune gocce d'una pozione con un sorso d'acqua, e gliela fece colare traverso le labbra bavose, tenendogli sollevato il capo con una mano passata dietro la nuca. Senza volerlo aveva pur vinta la repulsione del toccarlo, e poichè il liquido non trangugiato gli colava per il mento, lo rasciugò con un panno. Dolcemente gli ripose il capo nel cavo del guanciale, gli compose la mano torta sotto la coltre, lo coverse fino alla gola, e stette a guardarlo. Allora l'uomo — non più il medico — pensò ad un tempo lontano della lor giovinezza, quando quella creatura sfinita era un maschio avventuriero della buona strada, e si erano data la mano, da uomini, da galantuomini, per affrontarla insieme, la vita. E lo rivide nelle sue sembianze d'allora, vestito di panni semplici, come si conviene a chi vive tra lo scoppio delle mine ed il rimbombo delle macchine generatrici, con la sua bella fronte illuminata di volontà, l'anima che gli brillava negli occhi, limpida come il suo sguardo sincero. Egli era forse un po' selvatico a quel tempo, e si trovava dappertutto a disagio fuorchè tra le squadre d'operai, che capitanava come un condottiero, che lo amavan come un fratello più forte, ma uguale ad essi nelle fatiche, primo nei pericoli, integerrimo nella sua splendida povertà. Rivide un giovine alto della persona, nervato di ferrei muscoli nella carne arida, sebbene dal colorito un po' esangue, dalle fattezze quasi di adolescente, forse per quegli occhi azzurri che gli schiaravano la faccia e la biondezza dei capelli non folti, che davan quasi una trasparenza alla sua dolce fisionomia. Non aveva più famiglia, era solo nel mondo, e in luogo d'ogni altro amore aveva l'ambizione inflessibile di avanzarsi contro la vita per una via di conquiste, sacrificando tutti gli agi allo splendore della sua meta lontana. Ma aveva un fratello nel mondo, un fratello come lui combattente, come lui persuaso che ogni giorno si debba fare un passo più innanzi; e quand'ebbero denaro, divisero il denaro, quand'ebbero sciagure, divisero le pene, quand'uno si coronò di gloria, e l'altro si sentì pure innalzato nella sua medesima elevazione. Da presso, da lontano, separati e mai disgiunti nelle dure imprese che affrontavano, traverso l'età e le molte insidie che la vita ordisce contro gli affetti umani, salvarono quest'amicizia sacra, questo patto fraterno che li rendeva più forti, e delle cose o dei principii che la vita aveva loro insegnato a considerare in guise opposte non discutevano mai, per non gettare un'ombra pur lieve su questa concordia assoluta. Quanta vita nella memoria! quante vicende coraggiose! quante belle pagine di due storie umane, vissute per cammini opposti, con un solo cuore! — «Ti ricordi?...» — voleva quasi dirgli, mentre stava curvo sopra il suo letto, sopra le sue logore membra, in quella camera semibuia. — «Ti ricordi?...» E con quella celerità istantanea che solo il pensiero possiede, tutta rievocava in un baleno la storia di tanti anni, le vestige di tante memorie che infuriavano, là indietro, come foglie ammulinate, in quel turbine che si chiama il passato. E ogni tanto domandava a sè stesso, quasi con un senso di reale incertezza: — «È lui? proprio lui, quest'uomo che ora giace? quest'uomo ch'io faccio morire? È lui? Giorgio?...» Anche il suono mentale di questo nome gli pareva una cosa lontana. Poi subitamente si ricordò di una sera, — una sera non tanto remota in quella corsa a ritroso degli anni — quando Giorgio era venuto a trovarlo nel suo laboratorio e s'era seduto in un angolo, taciturno, ma con l'aspetto di volergli dir qualcosa, di volergli fare una confessione grave. Perchè mai di quella sera egli si rammentava così bene ogni più piccolo episodio? — Che strana cosa! In quella sera egli provò per la prima volta una specie di presentimento, oppure una di quelle sensazioni inspiegabili che paiono più tardi presentimenti quando il fatto accade. Era verso l'ora del pranzo, d'inverno, e pioveva. La pioggia produceva di continuo su la gran vetrata del laboratorio quel rumore scrosciante che un secchio d'acqua produce vuotandosi di colpo sovra un lastricato. Giorgio lo guardava; ed egli era seduto sotto la luce del riflettore, in mezzo a fiale, a storte, a gelatine dense di bacilli. C'era su la tavola un coniglio morto; in una gabbia tre topolini che giravan come trottole. — Sai, Andrea... — Ebbene? — Son persuaso che tu ne riderai, ma devo nondimeno confessarti una cosa... — Ti ascolto. — Ecco: mi sono finalmente annoiato di viver solo; ho un'idea fissa, nella testa, o nel cuore, non so... Insomma c'è una ragazza alla quale voglio bene... ed avrei pensato di prender moglie. — Oh, strano, strano... strano. E si ricordò di aver sollevato per le orecchie quel coniglio morto, ch'era freddo agghiacciato, e che ricadde come piombo. Certi particolari di nessun rilievo hanno talvolta più valore, più senso, nella memoria, che altri avvenimenti gravi. Gli sembrò allora, per la prima volta in tutta la vita, che da quelle parole, da quell'attimo, fosse per insorgere un ostacolo fra loro. Ma egli era un incredulo, un negatore: non vi badò. In quei giorni doveva riferire all'Accademia di Scienze su la scoperta di un nuovo bacillo e sopra un metodo di cura ch'egli proponeva, presentando un siero, che, dapprima combattuto, invalse poi nella medicina come un rimedio indiscusso, lasciando gli stessi medici stupefatti per la rapidità e la potenza de' suoi risultati. Era in quei giorni assorto pienamente dal lavoro, nervoso, irritabile, pervaso da quella febbre che accende l'uomo il quale sappia di possedere in sua mano una forza prodigiosa e debba farla riconoscere dalla ottusa diffidenza di coloro che paventano la novità; non viveva che tra la Clinica ed il laboratorio, trascurando il cibo, accordandosi poche ore di sonno, sostenuto solo da quella incurvabile volontà che gli stava confitta nel cuore come una lama, fino all'elsa, in un legno duro. E però si rammentava anche la voce di Giorgio, quando gli disse quelle parole; una voce che non gli aveva udita mai, vergognosa o timida, come la voce dell'uomo che debba farsi perdonare una colpa. Gli aveva risposto, quasi con negligenza: — Allora ti sei finalmente innamorato... ami... anche tu!... — in quell'«anche» c'era quasi un piccolo disprezzo. Giorgio rispose: — Anch'io. E un'altra cosa rammentava, più nitidamente ancora, con una precisione singolare. Qualche settimana dopo gli venne curiosità di conoscere questa fidanzata di Giorgio e andò con lui a visitarla nella sua casa. L'aveva trovata bella... sì, molto bella — e null'altro. Era stato al loro matrimonio, li aveva condotti fino alla stazione quand'erano partiti per il loro viaggio di nozze. Se ne tornò indietro solo, un po' triste, mentre gli pareva che qualcosa dell'antica lor fratellanza fosse andato in fumo, poichè per tutti i sentimenti, per l'amicizia come per l'amore, non bisogna essere che in due. Ma una volta, forse un anno, un anno e mezzo più tardi, Giorgio lo aveva invitato a

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Argomenti: tempo lontano,    maschio avventuriero,    patto fraterno,    suono mentale,    gabbia tre

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