La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 49

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occhi per solito così mobili; una specie di pesante oppressione incurvava la sua maschia fermezza. «Quando sarà nato, — egli riprese, — potremo finalmente pensare a noi; potrò dire finalmente che ti amo, che ti amo, e lo dirò così forte, Novella... con tanta gioia lo dirò, che forse ci perdoneranno. Perchè, vedi, se è vero che tu dovevi essermi vietata come poche donne lo furono ad un amore, certo nessun coraggio fu mai più grande nell'amore, del coraggio che ho saputo avere per te...» Nella veglia ella ricordava queste parole, ma senza cercare di conoscerne il remoto senso; le ricordava come una musica d'amore che le avesse inebbriati i sensi e quasi come la memoria d'una snervante carezza, d'un lungo e lento bacio che le avesse affaticata l'anima. Ed era felice di sentirsi ancor giovine, ancor bella, e così piena e così persa d'amore, da potersi concedere senza paure all'uomo che amava, da potergli rendere con pienezza quella gioia soverchiante ch'ella traeva da lui. Era stanca, le dolevano le spalle, i ginocchi, le braccia, le tempie; non le riusciva d'addormentarsi, e quasi per scendere incontro al sonno, si adagiava nel letto più supina, cercava ne' propri capelli sciolti un più morbido guanciale. Ma, ecco, le avveniva di pensare con qual dolcezza si sarebbe addormentata nelle braccia dell'amante, reclinando sotto il suo respiro la fronte ismemorata e sentendosi a poco a poco disperdere in una immensa felicità, in un riposo che le parrebbe il limite dell'amore umano, la pace dei sensi e dell'anima, il piacere che non affatica più... Ma poichè non poteva trovar sonno in quella ingrata coltre, si levò a sedere sul letto e con le braccia ricinse le ginocchia sollevate. Stando così, a mezzo fuori dalla coltre, il profumo del suo proprio corpo l'avvolgeva come un odore inebbriante. Una tristezza grave le assalse l'anima, poichè, lontana dall'amante, le pareva che scendesse un velo su l'infinito mondo e naufragassero tutte le cose in una vuota inutilità. Ella era donna, perciò non aveva battaglie nella vita, non miraggi verso i quali avventarsi con eroismo nè fatiche assidue che a lei riempissero le lunghe ore del giorno; era solamente una donna, un voluttuoso cuore d'innamorata, fino allora vissuta in ischiavitù, ed ormai, sopraggiunta la liberazione, dal più profondo pensiero alla più tenue vena, la beata sua giovinezza non sapeva che offrirsi all'amore. — «Non mi addormenterò, — pensava — s'egli non viene a baciarmi, e sarò triste nella mia solitudine, come se qualcosa del nostro amore fosse già vicino a morire.» Cominciò a riflettere: — «S'egli mi dimenticasse?» — Ripensò la storia d'altre amanti, l'abbandono d'altre innamorate, che anch'esse avevano amato come lei; sentì ch'era donna ella pure, onde aveva nell'ombra de' suoi passi un nemico inesorabile: il Tempo... e invasa da una folle paura tornò la sorella del morto, confuse il rimorso nella tristezza, pianse dell'amor suo con lui. VI — Sì, Giovanni, — disse Ferento al suo domestico, — sono in ritardo infatti. Ma da qualche giorno soffro d'insonnia e non mi riesce d'addormentarmi sin verso l'alba. Il domestico non rispose parola, ma fissò il padrone con uno sguardo fedele. Aveva notato infatti la grande alterazione del suo viso dopo l'ultimo ritorno dalla campagna, ma pensava che la perdita dell'amico fosse causa per lui d'un soverchio dolore. Come soleva ogni mattino, Andrea scese rapido per le scale, saltò nell'automobile che l'attendeva sotto il porticato. Per recarsi alla Clinica bisognava attraversare diagonalmente la città, uscir fuori dal suburbio, verso l'estrema circonvallazione. Colà, sul primo nascere della campagna collinosa, un edificio limpido sorgeva dal mezzo d'un giardino, come una serena e grande abitazione ove il dolore dell'uomo cercasse pace nel libero sole. Il Ferento l'aveva da tempo fatto sorgere, contribuendovi largamente col suo proprio danaro, per farne un grande Istituto di cura e di preparazione scientifica, un'ara solenne della medicina moderna. Da lunghi anni egli vi dedicava indefessamente ingegno, amore, volontà, con tanto spirito d'abnegazione, con tanto lume d'intelletto, che già da ogni parte il suo chiaro nome v'attraeva gli sguardi fiduciosi di tutta la scienza europea, come ad una di quelle sacre officine ove un uomo di genio, curvo ed investigante su la materia malata, cerca senza posa di emancipare gli uomini dal patimento e rendere migliore la vita alle generazioni future. Questo era veramente, nel suo santo paganesimo, il Tempio Umano. Così limpido era il mattino, che ridendo nelle invetriate bagnava di splendore le contrade, traeva dalla pietra e dal metallo un tremolìo di luce pieno d'ilarità. La città rumorosa e popolosa, consumando i suoi traffici quotidiani, era desta, viva, celere, si affaticava con gioia. In quella chiarezza, ogni singolo movimento assumeva una evidenza particolare; l'insieme di tutte le cose pareva esprimere un senso di forza gioconda. E la Città era veramente un'arteria del mondo, anzichè un aggregamento labile di case provvisorie, costrutte solo per contenere in sè il breve, inutile decorrere di tante vite umane. Era un'arteria del mondo e pulsava come una vela navigante; era un non so che di mostruoso che sbocciava dalla terra, dissimile da tutte le forme della natura; qualcosa d'immane che l'uomo aveva generato senza esempio, foggiando le montagne, piegando le foreste, costringendo i fiumi ad ubbidirgli: era un attendamento dell'uomo nella sua marcia verso l'infinito. Assorto in profondi pensieri, non s'accorse che già, di lontano, su l'altura della collina, appariva la grande villa bianca, dal tetto d'ardesia, con le finestre protette da tendoni di tela quasi rossa. E quando se n'avvide, una sensazione del tutto nuova la percosse, quasi di stupore e d'angustia, una sensazione che per la prima volta gli accadeva di provare, davanti a quella casa veduta nascere pietra su pietra. Quando l'automobile ne varcò il cancello, egli ebbe quasi voglia di tornare indietro, per sottrarsi alla noia di dover discorrere con tutta quella gente: i medici, le infermiere, la Direttrice, i malati, sopra tutto i malati. Allora, in una sola evocazione, rivide le lunghe corsìe, le sale operatorie, le piccole stanze, linde, uguali, con un letto in ferro, anch'esso bianco, due seggiole, un armadietto, un tavolino. Era la prima volta che gli accadeva di provare quel senso di stanchezza, di noia... Perchè la prima volta? Alcuni convalescenti passeggiavano per il giardino, e lo salutarono. Egli guardò la quercia altissima che sorgeva dal mezzo dello sterrato, l'albero calmo e tutelare intorno a cui le vetture compivano il giro per ridiscendere verso la cancellata. Nell'alto fogliame, come in un immenso alveare, le nidiate cantavano. Com'egli era stanco!... Perchè mai così profondamente stanco? La Direttrice gli scese incontro per la piccola scalinata, e con molta esuberanza lo festeggiava. Un infermiere, due medici, uno studente stavano su la porta. «Ben tornato! Ben tornato!...» Egli s'accorse d'un lieve odore d'acido fenico e di cloroformio che usciva dal corridoio; questo lo sorprese, come l'aveva sorpreso l'aspetto della Clinica. Tese la mano a tutti, scambiò alcune veloci parole coi più vicini, mentre la Direttrice, un po' chiacchierona, non ristava dall'esclamare: — Com'è dimagrato, signor professore! Com'è pallido! Non sta bene? — Un po' d'insonnia, signora Maggià; nulla di grave. S'avviò frettoloso verso lo studio, seguìto dal suo primo assistente, un bel giovine biondo, con gli occhi luminosi ed intelligenti, che aveva una così chiara voce da mandar in visibilio tutte le infermiere, quando, nelle ore d'ozio, accompagnandosi con la chitarra, cantava. Una profonda cicatrice, pur visibile tra la barba, gli feriva il principio del collo sotto la mandibola sinistra, ed era il segno d'un'infezione presa nel curare un malato.

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Argomenti: grande alterazione,    lento bacio,    voluttuoso cuore,    profondo pensiero,    folle paura

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