La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 31

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ve lo distese. Il capo s'era insaccato fra i guanciali, ond'egli risollevò di peso tutto il busto, lasciandolo poi ricadere, affinchè la testa prendesse nel cuscino la sua positura naturale. Poi raccolse le due braccia, e non sapeva dove metterle. Provò in diversi modi, fece varie ipotesi, ma nessuna lo soddisfaceva. Da ultimo pensò che la sinistra dovesse far l'atto di respingere le coltri e la destra portarsi alla gola come per vincere una soffocazione. Quando volle ricoprirlo, vide ch'era nudo fino alla cintola, e dopo averlo inguainato nella camicia fin sotto le ginocchia, raccolse le coltri, gliele buttò addosso. Quella ventata scompose i capelli ad entrambi. Si ravviò i suoi, lentamente. Le coltri si posarono sul morto con un disordine uguale, ond'egli cercò il suo braccio per portarlo verso la gola; insieme gli sbottonò il collo della camicia, per secondare quell'atto. Poi si allontanò di qualche passo ad osservare l'effetto che faceva. Non c'era in verità nulla che potesse far nascere un sospetto. — «D'altronde, — disse con lucidezza, — la commozione di quelli che lo vedranno domattina non lascerà campo a troppe indagini. E súbito sarà smosso: bisogna solamente rincalzare la coltre sotto il materasso.» Lo fece, da un lato e dall'altro, cominciando ai piedi, per quel tratto che non doveva mostrare alcun segno di disordine; anzi lo fece con tanta cautela quanta se ne usa nel comporre sotto le coltri una persona cara, prima che le si dica: — Dormi. A piè del letto la seggiola s'era obliquata, lo scendiletto era scomposto: raddrizzò la sedia, tese il tappeto, s'avvicinò al capo del morto, quasi volesse dirgli: — Ho finito. Notò allora sul tavolino da notte l'orologio e la catena d'oro che splendevano; avvertì l'assiduo celere battito del meccanismo, che dianzi non udiva. Nella caraffa di cristallo brillava l'acqua lucida. Vedendo l'acqua ebbe sete. — «Addio.» Formulò questa parola: «Addio», senza sapere come gli venisse alle labbra, senza quasi comprendere perchè la diceva. Questa parola, queste due sillabe, gli apersero nel cuore uno squarcio di dolore enorme, e gli parve di non poterlo abbandonare, perchè ora, quel morto, non lo temeva più: lo amava. Lo amava, ed era il suo fratello antico, e si chiamava Giorgio; non era stato ucciso dalla sua mano: era morto, era lì, nel suo letto di morte. Senza credere, senza saperne il perchè, gli pose una mano su la fredda fronte, e non con lo spirito, ma con le labbra disse: — «Pace.» La luna, salita al suo culmine, versava per tutta la camera un incantesimo azzurro, fasciava la coltre del morto in un velo d'irrealità. XI Nel breve tratto che percorse dalla camera di Giorgio a quella dove l'aveva ucciso, il suo delitto gli parve già remoto nel tempo, già retrocesso in una di quelle lontananze mentali che l'anima ismemorata varca in un baleno. Sicchè, nell'aprir l'uscio, quella poltrona rimasta nel mezzo della camera l'urtò quasi nel petto, come una realtà impreveduta, e fu sì forte il suo stupore, che da prima non osò inoltrarsi. — «Io sono Andrea Ferento: un uomo che sa di avere ucciso, — raccontò a sè stesso. — Un uomo che dovrà vivere congiunto con la memoria di questo atto incancellabile.» — «Ebbene? — si rispose; — la vita prosegue nella sua necessaria vicenda: il cadere d'una piuma d'ala non turberebbe altrimenti l'equilibrio immutevole delle cose. La terra non fa che ingoiare una bara di più. Ora la tua strada è sgombra: cammina!» Gli avveniva molto spesso di dialogare fra sè medesimo come fra due personaggi discordi, quasi per appurare da qual parte di sè fosse la ragione. La strada è sgombra?... Sì, gli pareva; sgombra e facile, certa e radiosa. Bastava ormai rimuovere da' suoi passi l'ostacolo più immediato: quella poltrona che propagava intorno a sè una così pesante ombra, quel mobile di legno e di cuoio che pareva contenere nelle vuote braccia l'estremo fantasma del suo delitto. Bisognava insomma, dopo tanto coraggio, non vacillare nella propria incoerenza, non attribuire a quella «cosa», nè alle altre che son prive d'anima, un significato umano. E fattosi animo, afferrò l'inerte mobile per le due braccia vuote, lo sospinse con una specie d'iracondia nell'angolo dove abitualmente stava, robusto e quasi benevolo, in attesa di reggere una stanchezza. Poi, sentendo il bisogno d'un felice respiro, aperse intera la finestra e s'affacciò verso la notte imbrillantata, che adagiava su la terra calma i suoi fantastici padiglioni di stelle. Tante ve n'erano e così folte, da parere uno sterminio di mondi luminosi, una polvere cosmica in ardore, una fosforescenza d'atomi dispersi dentro una sfera di cristallo. Le bianche vie planetarie, le immense fiumane del cielo straripavan di luce in praterie stupendamente azzurre, tendevan dall'uno all'altro emisfero un miracoloso arco siderale, che pareva navigar nell'infinito come una vela gonfia d'immensità. Cos'era la fine d'un uomo in quella eterna bellezza? Cos'era più, in quel silenzio parlante, il piccolo silenzio d'una bocca suggellata? Cos'era il senso d'una parola umana dentro quella trasformazione perpetua, che andava dall'inconoscibile verso l'ignoto, travolgendo seco infinite agonìe, facendo scoccare innumerevoli vite nel fulgore d'un istante? Fibrule, atomi, pulviscoli, o uomini, perchè urlate? Cosa scaglierete di voi contro questo immenso andare? O fuscelli nella bufera, o piume nel vortice, cosa importa mai all'Assoluto, che voi diciate: — Vivere... — che voi diciate: — Morire?... Stelle, stelle... vertici di splendore accesi al sommo del nostro pensiero, faville irradiate da noi, parole che brillano!... distanze forse immaginarie chiuse nella nostra pupilla, ombre forse di una luce invisibile, cancelli d'oro invarcabili della umana prigionìa!... O piume nel vortice, o fuscelli nella bufera, cosa può essere il vostro lieve schianto nella ecatombe universale che il Tempo divora camminando, come un affamato mai sazio? L'oblìo, l'oblìo, l'oblìo!... più dolce fra tutte le cose, poichè vuol dire non conoscere, non affaticarsi a conoscere, ma passare... Gli parve che tutto il mondo in quell'attimo avesse un colore di miracolo, e solo percepiva, con una specie di attenta gioia, il fluire del Tempo. Egli lo sentiva trascorrere in sè come l'acqua traverso un filtro; aveva chiara la sensazione che una parte del proprio essere, forse la più immonda, si sperdesse così nell'infinito, e gioiva di questa purificazione con una lunga e lenta voluttà. Il Tempo era un nettare che l'uomo beveva per dimenticarsi dell'attimo anteriore, per allontanarsi dalla sua spoglia vicina. Poi, quando si fu ristorato in quell'aria balsamica e si fu cullato quasi per ozio in questi erranti pensieri, d'un tratto gridò a sè medesimo: — «Non sei che un istrione! Cerchi di recitare la vita perchè hai paura di viverla! No, la tua parola è un'altra, più bella che «Dimenticare...» La tua parola è: «Potere!» Aspirò un largo sorso di quell'aria vivida, così gran sorso quanto spazio era ne' suoi polmoni capaci, e ripetè a sè stesso con la forza di una intimazione: — «Sì, potere! Potere con gioia!» Allora la faccia di colei che amava gli risalì nell'anima come la ghirlanda del suo peccato, e gli parve che affiorasse nel suo pensiero da una profondità quasi remota, per essere la sfera, il cardine, intorno a cui roteava tutto lo splendore dell'universo. Ella era veramente, nel suo spirito, sovrana ed unica: più in là che il senso delle cose, più in là che la negazione. Di lei sola, di questo solo amore, il suo cervello analitico non cercava ragione. S'era preso d'amore e l'amava, senza mai tentare una ribellione qualsiasi contro l'ebbrezza che questo perdimento gli dava. Se tutta la sua vita d'imperio, d'indagine, di lotta, era contro una dedizione così assoluta, se la sua fredda mente poteva sorridere di questo piccolo

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Argomenti: cervello analitico,    celere battito,    miracoloso arco,    piccolo silenzio,    lieve schianto

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