La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 44

Testo di pubblico dominio

litanie dei preti non lo scampava da quelle de' conferenzieri. Intanto vedeva Tancredo discorrere con animazione, prodigarsi, fare un grande sperpero d'inchini e di sorrisi. — «Ha tutte le fortune quel birbante! Capace perfino di ereditare...» E davanti al pensiero che Tancredo potesse ereditare, lo riprendeva un odio feroce contro tutta la specie umana. Presso il cancello del cimitero si trovaron lato a lato. — Olà, bel giovine! — fece il Metello; — sono al corrente anch'io, sai... — Al corrente?... ma di cosa? — Fa pur l'indiano... se ti garba! — Uhm, non capisco... — grugnì Tancredo. — In ogni modo, — concluse il Metello, — se vuoi che facciamo quattro chiacchiere prima ch'io riprenda il treno... — Volontieri. La bara, portata a spalle, s'incamminò per il piccolo viale: i familiari la seguivano e Tancredo s'affrettò con essi. Quando il feretro fu deposto su l'orlo della fossa, Tancredo si trovò di faccia il Ferento. Entrambi, quasi dimentichi d'ogni altro pensiero, per un lungo attimo si fissarono. Poi Tancredo volse altrove lo sguardo, incapace di sostenere più a lungo la sua bianca tranquillità. Gli affossatori sollevaron la bara, mentre la folla erasi radunata in cerchio presso il luogo del seppellimento. E qualcosa tuttavia di solenne, di solenne anche per l'incredulo, si rinnovava nell'atto semplice che nasconde per sempre sotto il lenzuolo di polvere una spoglia supina e còrica l'uomo anchilosato, putrescente, nella divina zolla piena di palpito che domani rifiorirà. Ognuno intanto s'aspettava che parlasse Andrea Ferento, e nel succedersi degli oratori ogni volta si lasciava un più lungo intervallo, mentre tutti lo guardavano con attesa. Ma il Ferento se ne stava immobile, a piè della tomba, con le due mani entro le tasche della giacchetta, gli occhi fissi al coperchio della bara, e pareva che una grande solitudine si estendesse intorno a lui. Gli sguardi vigili del medico Paolieri non l'abbandonavan un momento, così pure gli occhi d'altre persone disperse fra gli ascoltatori. Egli sentiva con una specie di molestia la tenacità di quegli sguardi e s'accorgeva di farsi continuamente più pallido come se una fredda febbre gli consumasse la faccia. Si avvedeva di quell'attesa nella quale stavan tutti, ch'egli parlasse, ma era ben risoluto a non dissuggellare la bocca. Poi temette che il suo silenzio avesse a parer strano, e da ultimo gli sembrò di parlare infatti, gli sembrò di esser ritto, parlante, gesticolante, su l'orlo di quella fossa, ma di udire che intorno si rideva sgangheratamente, beffando il parlatore, il morto, e la vedova ch'era lontana, lassù, nella sua camera deserta... I discorsi finirono, la gente non si moveva. Gli si avvicinò il sindaco Berra: — Professore, non crede lei pure... — Grazie, no! — rispose il Ferento. Ma la gente non si moveva; e lo guardavano; tutti guardavano lui. Gli si avvicinò un giornalista ch'egli conosceva benissimo. Paolo Giordano, e gli mormorò alcune parole a bassa voce. Allora il Ferento comprese ch'era tuttavia «necessario» parlare; guardò con odio la folla, eresse in un terribile sforzo la sua dura volontà, e disse: — Va bene. Fece qualche passo avanti, rialzò la fronte luminosa, e le sue labbra obbedienti parlarono. «Giorgio Fiesco...» — Limpida suonava la sua voce, senza tradire il convulso che gli torceva l'anima, ed ancora due volte pronunziò questo nome: «Giorgio Fiesco... Giorgio Fiesco, ingegnere della miniera di Haswill, costruttore del più alato ponte sopra la valle di Cimbra, io t'ho salutato altre volte per morto, quando salpavi dal molo atlantico nel meraviglioso pericolo della tua temerità. Senza lacrime allora, senza lacrime ancor oggi, che non puoi tornare, ti saluto. Altro non facemmo in vita che scambiarci nelle ore più forti una rapida stretta di mano ed uno sguardo chiaro, che vedeva la strada fino all'ultima pietra milliare, che non diceva mai: «Férmati» — ma diceva tranquillamente: «Arriverai!» Poichè ti conobbi meglio di chicchessia, risponderò in tua vece a coloro che oggi videro cadere su te la pietra del sepolcro. Le tue parole sono queste: — «Non piangete. Un uomo sereno e stanco è sceso nella morte che non temeva. Non fece che restituire la sua nascita, in un'ora calma. Egli vorrebbe solamente insegnarvi a sciogliere questa parola dal suo dolore, dal suo terrore, dall'inutile angoscia ch'essa propaga in ogni giorno della vita; vorrebbe convincervi che la morte non è una cosa triste, poichè il bene ultimo, l'ultima felicità degli uomini è la pace... «Sì, Giorgio: io che ti conobbi meglio di chicchessia, mi rammento che pronunziavi queste parole poche ore prima di addormentarti. Ed ora che non àbiti più nella spoglia coricata, il tuo fratello non ti deve che uno sguardo chiaro, una stretta di mano, da compagno a compagno, l'ultima, con semplicità.» La sua voce solenne, il suo virile aspetto pieno di una tranquilla magnificenza, parvero in quel momento ravvolgere l'uomo ed il sepolcro nella significazione d'un rito. Un rito laico, ma profondamente umano, che il simbolo del vivo compisse verso l'ombra dell'estinto, e che fosse maggiore, più alto, più leale, di tutte le parodie con cui le religioni accompagnano i morti a sepoltura. Egli era scientificamente un ateo, sapeva i destini della polvere, aveva escluso Dio. Molti, nell'ascoltarlo, si rammentavan le più note pagine de' suoi libri, ed anche se lontani da lui, anche se inadatti a comprenderlo, sentivano raggiare da' suoi occhi una potenza soggiogante, sentivano quasi un'invidia della sua temeraria e mai genuflessa libertà. Era un evangelista laico, un profeta che non vendeva dal pergamo le formule dell'Assoluto, ma sui frantumi di tutti i Pantheon, delle necropoli e delle chiese, innalzava la deità dell'uomo, dell'uomo autocrate nel mondo, sterminatamente orgoglioso del suo nulla più grande che Dio. Era un profeta, non perchè avesse donato ancora una volta la inconoscibile verità, ma perchè predicava la scienza come la sola religione degna del tempo futuro, come quella che, svincolato il pensiero da ogni teosofia, da ogni metafisica imbastita su ipotesi arbitrarie o su telai di parole ingannevoli, guiderebbe ogni spirito ai limiti della conoscenza ed al sereno amore della vita. III «La vedrò finalmente questa vedova!» pensava Tancredo, camminando in un salotto attiguo alla sala da pranzo, mentre, per la porta socchiusa, intravvedeva la Berta posare su la credenza un bel piatto fumoso. Egli tornava dall'aver accompagnato alla stazione il suo compare Saverio Metello, col quale aveva per l'appunto scambiate quelle quattro chiacchiere che si erano promesse. In quel momento entrò la signorina Dora, che, toltasi il cappello ed il velo di crespo, ancor più frivola di giorno e più leggiadra gli parve che di sera. — Lei ha fame probabilmente, signor Salvi, — disse con la sua voce fresca e maliziosa. — Peuh... un tantino. Ma non ci pensavo neppure. In queste gravi circostanze... — Certo, — ammise Maria Dora con una boccuccia impertinente. — Ma ora si va a tavola, non dubiti. — Poi soggiunse: — Cosa pensa del funerale? È riuscito grandioso e commovente, non le pare? — Quello che il povero Giorgio si meritava, — osservò Tancredo con aria ispirata. — E sua sorella come sta? — Eccola, — disse Maria Dora. Ella entrava con sua madre infatti; Maurizio la seguiva con Stefano e con lo scemo. Poco dopo sopraggiunse il Ferento, che lo presentò alla vedova: — Il signor Tancredo Salvi, che forse non conoscete. Ella fece un saluto con il capo, un saluto serio e dolce, al quale Tancredo rispose con una specie di riverenza impacciata. Quando furon tutti seduti, la Berta mise davanti alla vedova una tazza di brodo; il Salvi non poteva ristare dall'ammirarla tanto, ch'ella teneva costantemente la faccia china. Poi guardava con invidia il Ferento, pensando: «Beato lui!»

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Argomenti: due mani,    uomo sereno,    aspetto pieno,    grande sperpero,    saluto serio

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