La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 47

Testo di pubblico dominio

con le nocche su l'uscio. Dandolo venne ad aprire in mutande, coi piedi che navigavano in due vaste pantofole di paglia tonchinese, dalle punte volte all'in sù come le prore di due gondolette. — Oh, guarda... Saverio! Tancredo!!... Che piacere! Avanti, avanti! Sui tavolini, sul divano, sul letto, su le seggiole, fin per terra, v'eran cartoni di farfalle in preparazione; le pareti n'eran coverte, sicchè pareva d'entrare nel ripostiglio d'un bizzarro museo. A terra, dietro il capo del letto, v'era un mucchio di libri, coverti da uno strato di polvere; sopra il canterano, in gran disordine, quantità di boccette, scatolette, forbici, spilli, spazzolini, cose tutte che dovevan esser utili alle sue scarpe od alle sue farfalle. La camera prendeva luce da una finestrella poco più grande che una gattaiuola e così alta nel muro che certo l'omino doveva salire sopra una sedia per giungere ad aprirla: questo perchè dava sul letto. Un vano senza porta metteva da quella stanza in un'altra più piccola, rischiarata solo da una finestra a bótola. — Ora vi libero il divano, — disse Dandolo. — Abbiate pazienza. E con infinita cura operò il trasloco delle sue farfalle. — Eccomi a voi, cari amici. Se mi dispensate dal mettere i calzoni, vi ringrazio, così non s'impólverano. — Figùrati! — rispose Tancredo. E cercò dove quell'omino tenesse i suoi preziosi calzoni. Li vide, ben ripiegati, su la spalliera d'una seggiola, protetti da un giornale; sotto la sedia v'era un paio di scarpe, luccicanti come se fossero verniciate a coppale. — Vuoi guadagnare cinque o sei giorni di mantenimento in campagna, un anticipo all'andata ed una buona gratificazione al ritorno? — domandò Tancredo, entrando filato nell'argomento. — Se avete bisogno ch'io vada in campagna, — rispose Dandolo umilmente, — ci vado senz'altro. E dove? — È un paese ricchissimo di farfalle, — spiegò Saverio con un risolino. E guardava su le pareti quel fermo svolazzare di alette gialle bianche verdi turchine, chiazzate striate variegate, che formavano in verità una tappezzeria fantastica. — Dandolo Zappetta! — esclamò Tancredo, — qui vedremo veramente che uomo sei, perchè veniamo da te per incaricarti d'una inchiesta siffatta, la quale, se desse risultati positivi, basterebbe in fede mia per mettere a soqquadro l'Italia! — Davvero? — esclamò Dandolo, pizzicandosi le mutande, ma senza un eccessivo stupore. Poi Tancredo, nel modo più confuso che potè, omettendo nomi, luoghi, particolari, fece al poliziotto un'arruffata e misteriosa narrazione. Durante questo racconto lo Zappetta prese un'aria quanto mai distratta, mordicchiando il suo corto bocchino e sollevando il sopracciglio destro d'un buon dito sopra il livello del sinistro. Quando il narratore giunse al termine, Dandolo non aperse bocca; ma, scordandosi d'essere in mutande, faceva tratto tratto il movimento di chi voglia ficcarsi le mani nelle tasche. — Dunque? — l'interrogarono insieme Tancredo e Saverio, davanti a quel silenzio. Dalla scranna su cui stava, Dandolo affondò i piedi nelle due gondole tonchinesi riprendendo contatto con la terra. — Ecco, — spiegò loro con mansuetudine. — Voi mi fate l'effetto di due malati che vadan per un consulto nella clinica di un dottore, ma poi rifiutino di lasciarsi visitare, anzi facciano tutto il possibile per nascondere al medico i sintomi della loro infermità. In questo modo, cari amici, non verremo a capo di nulla. — Non ha torto, — ammise Tancredo guardando il Metello. — Statemi a sentire, — cominciò Dandolo in tono confidenziale. — Con quello che m'avete già detto, poche ore mi basterebbero per colmare, se volessi, le lacune del vostro racconto. — Non ha torto, — ammise anche il Metello. E ripigliando la narrazione da capo, gli scoversero interamente il loro segreto. — Ahimè!... — fece allora lo Zappetta. — Mi pare una cosa tanto grave, ch'essa tocca l'inverisimile. — Così è, — rispose Tancredo con modestia. — Ebbene, — precisò Dandolo, dopo aver riflettuto, — supponiamo per un momento che il fatto sia come voi dite. Andrea Ferento ha avvelenato, e certo in un modo strettamente scientifico, il marito della sua amante, il fratellastro di Tancredo, l'ingegnere Giorgio Fiesco. Se così stanno le cose, io vi prometto di portarvi in meno di otto giorni i dati necessari perchè Tancredo ne sporga denunzia al Procuratore del Re. — Ottimamente! — applaudì Tancredo. — Ma se invece si trattasse d'un abbaglio, d'uno di quei fenomeni che sono talvolta l'ìndice della perversa fantasia popolare, i veri casi di pazzia dell'Anonimo, e se ciò non ostante voi voleste, basandovi sui rumori d'una borgata, macchinare contro quest'uomo, che ammiro altamente, uno scandalo indecoroso a puro scopo di lucro, qualcosa insomma che abbia l'aria d'un ricatto... allora vi consiglio, ragazzi, di andar a picchiare altrove, perchè io di queste cose non mi occuperò mai! I due si guardaron in faccia con una certa qual titubanza, e sorrisero fra loro di quella soave ingenuità. Pareva si dicessero: — Poverino! che omino per bene! che anima semplicetta come le sue farfalle! — Poi Tancredo rispose con voce burbera: — Va bene, va bene! Ed il Metello aggiunse: — Non era nemmeno il caso di parlarne, tanto è naturale. — Io amo gli accordi chiari, — precisò lo Zappetta. — Ed ora torniamo al primo supposto: il delitto è veramente avvenuto, io l'ho ricostrutto, Tancredo va per sporgere la sua denunzia al Procuratore del Re... Mi seguite? — A puntino. — Ebbene, sapete voi quel che càpita nel nostro bel paese? No, non lo sapete?... Ci prendono tutti e tre, delicatamente, con un pretesto qualsiasi, e ci mandano intanto a meditare su le piaghe della società negli ozî d'una patria galera. — Càpperi! — saltò su Tancredo. — Verissimo!... — dichiarò il Metello; — ha ragione lui. Non ci avevo pensato. — C'era una volta un asino il quale, avendo inteso dire che Caligola aveva incoronato il suo cavallo, si era messo in mente di andare alla conquista dell'Impero Romano... Sapete cosa gli capitò? — Lasciamo gli scherzi, — fece Tancredo, — e spiégati. — Ecco, mi spiego, — disse allora Dandolo, — Voi dimenticate una cosa. Il Ferento, oltre la sua propria forza d'uomo politico, di agitatore, di scienziato, è anche massone; anzi è, od era, uno fra i più potenti capi della Massoneria. — Stavo per dirlo: è massone! — confermò il Metello. — Dunque a voi due pare — disse Tancredo — che non si possa far nulla contro un uomo così potente? — Non volevo dir questo, — riprese lo Zappetta col suo tono dimostrativo, — ma certo sarebbe da pazzi mettersi al cimento senza la certezza di riuscire. Voi due non potrete mai essere che i suoi zimbelli, anche se aveste in mano la boccetta del veleno che gli servì. Poichè sappiate che contro un uomo così forte potrebbe solo cimentarsi un rivale della sua tempra, o l'avversaria che vince tutti: la folla. — Sei eloquente! — esclamò Tancredo. — Sono giusto, — corresse Dandolo, — giusto semplicemente. Oggi ancora, dinanzi alla figura di Andrea Ferento, io, che vivo in una soffitta, mi sento pieno di ammirazione; il giorno in cui avessi acquisita la certezza del suo delitto, ma una certezza vera, una certezza mia propria, diverrei feroce contro di lui, perchè il delitto è maggiore dell'ingegno, anzi è la cosa più potente che generi la società; quindi va smascherato. — E concludendo? — fece il Metello, cui non importavan assolutamente nulla questi aforismi. — Concludendo io parto stasera stessa, od anche sùbito, se volete. E rapidamente guardò i suoi calzoni, poi l'orologio di similoro che teneva in una foderetta di lana. — Benissimo, — acconsentirono i due compari. — Lasciatemi solo riporre le mie farfalle e chiudere bene le finestre perchè non entri vento. L'omino,

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Argomenti: corto bocchino,    sopracciglio destro,    scandalo indecoroso,    puro scopo

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