La vita comincia domani di Guido da Verona pagina 45

Testo di pubblico dominio

Tranne alcune brevi parole di Maria Dora, la colazione passava taciturna. Lo scemo aveva smesso l'abito nero, per indossar di nuovo il suo giubbone quasi giallo, e si divertiva nel battere la stoviglia con la forchetta, il bicchiere con il coltello; poi faceva le boccacce alla Berta, ridendo e tirandola per la sottana ogni qualvolta costei gli passava daccanto. Verso la fine della colazione entrò Mattia, che aveva da parlar con Stefano, il quale si levò, e uscirono. Marcuccio pure sorse di tavola prima che gli altri finissero, e scomparve. Maurizio si puliva le unghie con uno stuzzicadenti. Quando Maria Dora, che gli era seduta vicino, se n'accorse, gli diede un colpetto con la mano; il giovinotto si mise a ridere. La vedova non voleva neppure le frutte; sua madre le mise tuttavia sul tondo una bella pesca, rossa come un caldo velluto, e che mandava profumo. — Mangiate almeno quella pesca, Novella, — disse il Ferento, che pur tacendo si occupava continuamente di lei. Ella volse gli occhi a guardarlo, sorrise ed obbedì. Tancredo aguzzava tutte le sue facoltà d'osservazione, poichè la voce del Ferento, nel parlare con la vedova, lo aveva infatti colpito: una voce così diversa dalla sua consueta, blanda, persuadente, morbida, «una voce — se la definì Tancredo — che pareva la carezza d'un innamorato.» E per la seconda volta, ma quasi con rancore, si disse: — «Beato lui!» Frattanto s'accorse che Maria Dora e Maurizio si parlavan piano e ch'egli doveva essere appunto la causa de' loro bisbigli. Allora domandò al Ferento: — Scusi, professore, quando riprende i suoi corsi all'Università? — Fra una diecina di giorni, signor Salvi. E basta. Non c'era proprio mezzo d'attaccar discorso. A lui pareva che tutto dovesse avere un limite, anche il dolore per un morto, e trovò che in fondo esageravano un poco. — Prenderemo il caffè in sala, — disse Maria Dora. E si levarono. Tancredo, nel salone semibuio, si sprofondò in una comoda poltrona; di fianco gli misero un tavolino con la chicchera del suo caffè; Maria Dora gli propose la scelta fra un bicchierino di «Chartreuse» ed uno di «Cognac»; Tancredo preferì quest'ultimo per la veneranda polvere che ne affumicava la bottiglia. La sala — quella medesima sala ove poco tempo innanzi, durante un chiaro pomeriggio di sole, Novella si era seduta al pianoforte per eseguire una fuga di Bach, mentre il marito l'ascoltava e la guardava protendendo verso lei con un disperato amore l'esausta persona febbricitante — la sala medesima era come quel giorno fragrante di rose, e come quel giorno il sole vi pertugiava dalle persiane, dissolvendosi traverso la penombra in una striscia di polvere luminosa. Tancredo si sentiva bene, deliziosamente bene, sicchè, abbandonandosi alla sua natura fantastica, sognava che quella casa fosse la sua propria casa, immaginava di potervi da quel giorno in poi trascinare una vita opulenta e neghittosa, facendosi servire come un satrapo, satollandosi di pasti luculliani, consumando una cantina di bottiglie decrepite, lui, Tancredo Salvi, padrone d'una villa in campagna. Il Ferento, in piedi su la soglia d'un altro salotto, stava leggendo un giornale; mamma Francesca s'appisolava sul divano; Maria Dora ed il giovinotto discorrevan sottovoce nel vano d'una finestra; la vedova era seduta quasi di fronte a Tancredo, con le due mani poggiate sui bracciuoli della poltrona di velluto scuro, il capo rovesciato sopra un cuscinetto che guerniva la spalliera, sicchè la sua gola bianchissima appariva scoverta come una procace nudità. Allora Tancredo arrischiò una frase, timidamente: — Si ricorda, signora? Io venivo a trovar Giorgio qualche volta in città... Ella n'ebbe un tremito, come s'egli l'avesse interrotta nel mezzo d'un sogno. — Sì, me ne ricordo, signor Salvi... La sua voce le somigliava: era come la sua gola turgida, come la sua gamba seminuda, come tutta la sua persona, viziata, appassionata, soave. — Ma ultimamente era un pezzo che non rivedevo Giorgio. — Forse da quando si ammalò? — Appunto. Gli occhi della vedova eran dolci, grandi, fermi: lo guardavano in faccia, ed egli si sentiva vergognoso come un contadino sotto lo sguardo di questa bella donna. Maria Dora, udendoli parlare, s'avvicinò e mise una mano sul braccio della sorella, poi s'appoggiò con i gomiti su la spalliera stessa ov'ella teneva il capo. — Ed ora, — domandò il Salvi — lei pensa di rimaner in villa, o forse di fare un viaggio per distrarsi? — Non so nulla per ora; non abbiamo ancora deciso nulla. — Signor Salvi, — disse d'improvviso il Ferento, con una voce quasi gaia, — vuole che facciamo insieme una passeggiata nel giardino? Egli si levò in piedi con un atto di repentina obbedienza e rispose: — Volentieri. Scesero dalla scalinata e s'allontanarono fra gli alberi. Camminando, il Ferento ripiegava con lentezza il giornale, che poi si mise in tasca. Ma d'un tratto e senza preamboli disse: — Lei desidera probabilmente saper qualcosa intorno al testamento di Giorgio Fiesco, non è vero? — Ecco, no... ossia... — spiegava Tancredo con impaccio. — Dunque: il testamento fu trovato nella sua scrivania ed ora è nelle mani del notaio Garlantini, qui del paese, presso il quale può prenderne visione quando crede. È molto semplice: istituisce la moglie erede universale, tranne un cospicuo legato in terre ai suoceri Landi, perchè poi lo trasmettano alla lor figlia Maria Dora. Qualche ricordo agli amici più stretti: lei non vi è nominato. — Ah, benissimo... — rispose livido il Salvi, che per tutto quel discorso aveva trattenuto il respiro. — Ecco: volevo dirle questo, — concluse il Ferento. «È un colpo forte, forte, forte...» — pensò Tancredo. Guardò in terra, in cielo, fra gli alberi, poi soggiunse: — Ma, scusi, lei trova giusto?... le pare una cosa giusta?... — Sì, — rispose il Ferento con una voce pacata. Il Salvi a tutta prima non seppe che dire; quella risposta recisa lo sbalordì. — Giusta fino ad un certo punto, — si permise di osservare. — Dopo tutto ero il solo parente... — Che vuole? Non è sempre la parentela quella che suggerisce gli affetti, e le dico in verità, poichè mi ha domandato il mio parere, che Giorgio Fiesco non avrebbe potuto accorgersi di avere un fratello, o sia pure un fratellastro, se non dopo la sua morte. — Ma non era colpa mia se... — Via, non le pare che sian discorsi oziosi? Volevo dirle piuttosto una cosa, signor Salvi. Lei è arrivato iersera ed ha creduto opportuno alloggiare in villa, pur non conoscendovi nessuno... — È vero, professore; ma era così tardi... poi desideravo... — Mi lasci dire. Tutto questo può esser ancor naturale. Ma quello che trovo assai meno lecito è il suo contegno in tale circostanza. — Quale contegno, professore? Ho cercato solo di rendermi utile. — Quel che trovo assai meno lecito, — continuò il Ferento senza badargli — è per esempio la sua dimestichezza improvvisa con persone di servizio, che vanno lasciate in cucina. — Ah, lei vuol dire... — fece Tancredo mordendosi un labbro. — Non volevo dirle altro che questo, signor Salvi, e mi perdoni la libertà. Ma siccome la famiglia Landi è molto colpita in questo momento ed io sono il loro amico più stretto, così ho creduto necessario di parlarle chiaramente. Si era fermato e gli esponeva queste cose con affabilità, con una garbatezza calma e sicura, davanti alla quale Tancredo non seppe che rispondere. — Mi scusino... — mormorò. — Nient'affatto, signor Salvi; lei non deve scusarsi affatto. Poi gli parlò d'altre cose affatto prive d'importanza, tornando passo passo verso la villa. IV Da questo colloquio Tancredo intese che le parole del Ferento equivalevano ad un commiato e che perciò era necessario far presto. — Non dubitare che mi vendico! — borbottava a denti stretti, ripreso da un accesso di bile nel pensare alla

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Argomenti: due mani,    chiaro pomeriggio,    giorno fragrante

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