Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 9

Testo di pubblico dominio

una ultima resistenza dell'umiltà sua nativa. "Mi dica" incominciò finalmente sottovoce con un albore in volto di letizia santa: "questa idea della professione religiosa, intendo che Le è venuta dal dolore, ma quando? Come ha principiato in Lei?" "Oh, don Giuseppe, non mi è mica venuta dal dolore." "No?" Il viso di Maironi, giunto dalla tempesta interna, si scompose. La voce obbediva ancora al freno, ma tremava. "No, don Giuseppe, sono un vile, non sento più nessun dolore per lo stato di mia moglie." Don Giuseppe lo guardò, sgomentato più ancora dal disordine di quel volto che dalle parole. L'altro ripetè, a stento, con soffocata voce: "Nessuno." Don Giuseppe aperse le braccia. "E allora?" diss'egli quasi severamente. Maironi scattò in piedi, andò alla finestra, vi stette un minuto voltando al prete le spalle che sussultavano. Quando ritornò al canapè il viso era ricomposto e la voce ferma. "Bisogna che Le spieghi tutto" diss'egli. "Avrà pazienza, don Giuseppe?" Alla protesta muta del vecchio, continuò: "Ella sa come sono entrato in casa Scremin. Sa che restai senza padre appena nato, si può dire; perchè mio padre morì a Oria delle conseguenze della sua ferita nel 1860 e io nacqui nel '59. Sa che mia madre morì, pure a Oria, due anni dopo, che mia bisnonna Maironi non volle tenermi in casa e mi affidò ai suoi parenti Scremin. Il marchese è figlio di un fratello della bisnonna. Morì presto anche lei, lasciò erede me e nominò mio tutore il marchese. Credo che sin da quel giorno gli Scremin abbiano pensato a me per la povera Elisa. Sono diventato uomo in casa loro, studiando con don Paolo, com'Ella sa, senza libertà di scegliermi degli amici, frequentando sempre la stessa gente, impregnata delle stesse idee. Io voglio ancora bene a quell'eccellente don Paolo, ma da ragazzo, poi, l'ho adorato. Quanto ho pensato allora di farmi religioso anch'io! Il solo odore d'incenso che don Paolo serbava nella tonaca quando veniva a pigliarmi, dopo le funzioni, per il passeggio, mi metteva una riverenza! E pensavo allo stato religioso come ad uno stato quasi divino. Durante le funzioni, al suono dell'organo, la mia delizia era di sognare la Tebaide o il Libano o anche spesso un monastero fantastico perduto in mezzo al mare del Nord. In pari tempo..." Qui Piero s'interruppe. "Mi ascolti come nel sacramento" diss'egli sottovoce. E ripigliò: "Dunque, io che sognavo monasteri e vita religiosa, è incredibile come dai primi anni della fanciullezza, prima di possedere il senso morale, fossi soggetto ad accessi strani di sensualità; di una sensualità che la mia ignoranza, fortunatamente durata moltissimo, rendeva cieca e particolarmente tormentosa. Quando il mio senso morale si risvegliò, siccome poi religiosissimo ero già da prima, non Le so dire i miei terrori e le penitenze segrete! Allora, molto molto presto, siccome per un certo tempo dopo ch'ero andato ai Sacramenti avevo delle estasi religiose, dei rapimenti inesprimibili, dei giorni in cui l'idea della menoma impurità mi metteva schifo, cominciai a pensare sul serio che per liberarmi dalle ossessioni dello spirito immondo avrei dovuto entrare in un Ordine religioso. Una volta fui condotto a vedere l'abbazia di Praglia, negli Euganei, che Lei conosce; dev'essere a sei o sette miglia da qui. Là, proprio nelle logge del cortile pensile, mi venne l'idea di farmi benedettino. Avevo quindici anni, allora. Ne parlai a don Paolo e don Paolo mi disse ch'ero troppo giovine per pensare a queste cose. Capii da certe vaghe parole del mio confessore che il discorso era stato riferito in famiglia, che l'avevano preso sul serio e ch'erano contrarissimi. Infatti mi mandarono a viaggiare con don Paolo, mi fecero condurre qualche volta al teatro da un amico di casa. Io avevo sempre combattimenti interni, ma duravo fermo nel mio proposito. Studiavo il latino e il greco assai volentieri ed ero contento che il mio tutore non mi facesse seguire un corso regolare di studi perchè prima ancora di pensare a farmi frate, quando mi avevano detto che gli studi regolari potevano solamente condurmi a diventare avvocato, o impiegato, o medico, o ingegnere, o professore, n'ero rimasto sorpreso e afflitto. Non mi sentivo nato ad alcuna di queste vie, avevo creduto che nel mondo ve ne fosse un'altra buona per me, mi accoravo del mio inganno come di non saper decifrare in me stesso i desideri che mi rendevano inquieto. L'idea di farmi religioso mi parve una rivelazione, mi diede un benessere profondo, per qualche tempo; vorrei dire fino a sedici anni. A sedici anni un certo senso di diventar diverso io e di veder diverse tutte le cose, certi sguardi, nuovi, di donne, certe rivelazioni del mondo e della vita mi sconvolsero l'anima. Però nelle mie agitazioni indicibili di quel tempo, anche nei momenti in cui abborrivo dalla vita religiosa, l'idea di renderla impossibile col matrimonio m'ispirava un inesplicabile terrore; proprio terrore. Intanto mi tenevo attaccato a tutte le esteriorità religiose, alla Conferenza di S. Vincenzo de' Paoli, al Circolo della gioventù cattolica, per istinto, perchè lì almeno c'è qualche cosa di fermo. Gli anni passavano, avrei potuto cominciare a occuparmi de' miei affari ma non ci pensavo. Capivo che il mio tutore non lo desiderava e mi era facile di compiacerlo: non ho affetto alla proprietà. Dal partito ero accarezzato molto. Lei lo sa. Mi elessero vicepresidente del Circolo. Mi affidarono dei lavori, delle traduzioni dal tedesco e dal francese di scritti cattolici, mi parlavano sempre del mio ingegno, di uffici pubblici cui sarei stato chiamato, di una grande parte che mi era serbata nell'azione cattolica, mi chiusero nella loro cerchia, mi rappresentarono corrotti e pericolosi tutti i giovani non clericali, m'insinuarono spesso idee di matrimonio con allusioni alla cuginetta ch'era in collegio. Ciò che dovevo fare per il Circolo lo facevo senz'amore. Non ho fatto con amore che una traduzione di Ketteler. Capivo che per l'idea d'una legislazione sociale cristiana avrei potuto appassionarmi, ma sentivo in pari tempo che fra i miei compagni di partito e me vi erano delle dissonanze profonde, che un'azione comune con essi, proprio ex corde, non mi sarebbe stata possibile. Mi pareva che avessero acqua nelle vene, acqua santa, se vuole, ma troppo diversa da quel sangue pieno di fuoco latente che mi sentivo io, e ricadevo in una specie di letargo, confortandomi con la speranza stupida di una potenza ignota che maturasse dentro di me. Quanto al matrimonio incominciai a considerarne l'idea come un nuotatore stanco incomincia a pensare di abbandonarsi. Avevo ventun anni quando gli Scremin levarono di collegio l'Elisa che ne aveva diciassette. Allora ebbi un quartierino a parte, un domestico a parte. Il marchese mi dichiarò solennemente che le convenienze volevano così; tanto solennemente che mi parve quasi essere giudicato indegno di aspirare alla mano di mia cugina. In apparenza ero libero. In fatto la marchesa, con tutte le piccole buone arti che possiede, mi teneva più schiavo di prima. L'Elisa mi piaceva come persona, mi piaceva per un certo che di enigmatico nella sua stessa freddezza e severità, mi piaceva sopra tutto, credo, perchè mi ero accorto di piacere a lei. Però, siccome mi ero finalmente anche accorto delle manovre di suo padre e di sua madre, n'ero seccato e mi difendevo; perchè poi proprio innamorato non ero. In questo stato d'animo, una sera, a Venezia, io che fino a quel momento mi ero serbato materialmente puro..." Silenzio. "Passi, passi" mormorò don Giuseppe. Piero ripetè: "La reazione di vergogna e di nausea fu violentissima. Allora il matrimonio con una fanciulla tanto pura e severa come mia cugina mi parve un asilo di pace. Quando la sposai mi credetti innamoratissimo di lei. Però neppure a lei ho voluto raccontare i miei propositi segreti di una volta. Solo mi ricordo che si visitò insieme Praglia, che il trovarmi nel cortile pensile con mia moglie mi

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Argomenti: certo tempo,    pari tempo,    certo senso,    senso morale,    monastero fantastico

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