Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 3

Testo di pubblico dominio

vustu? Son andà in oca." Egli offerse, nella sua mansueta virtù, una confessione pubblica in cucina. "Sempiezzi!" brontolò la moglie, accigliata. Il marito, molto superiore a lei di cultura e molto inferiore d'animo, largamente fornito di ambizioni a lei sconosciute, sapeva camminar bene certe mobili vie delle nuvole e anche certe altre vie sotterranee, certe gallerie elicoidali che potevano condurre piano piano su qualche cima dominatrice il suo carico di desideri e di scrupoli, ma non era mai riuscito ad impratichirsi delle vie comuni dove il volgo cammina spedito, anzi non sapeva raccapezzarsi neppure in casa propria dove camminava spedita sua moglie. Invece costei, natura complicatissima d'intelligenza e di tardità, di larghezza e di parsimonia, di gentilezze poetiche e di fermezze quasi dure, nata immune da fantasie, da passioni e anche da egoismo, ma curante di sè e pur sempre tenace, in palese o in segreto, de' suoi propositi, pronta alle franchezze difficili e custode gelosa degl'intimi propri pensieri, possedeva un senso acuto dell'angusta realtà dentro la quale chiudeva l'energia instancabile de' suoi affetti oscuri e profondi, i suoi disegni sapienti e i suoi discorsi insipidi. Ella era devota al marito, come al solo uomo cui avesse pensato mai; devota a quella felicità del marito che nel campo morale rispondeva non tanto ai desideri di lui quanto alle idee di lei. Le inettitudini di Zaneto alla vita pratica la irritavano nel suo segreto. Nè una discreta fama di archeologo, nè l'ambito seggio in Senato, nè un portafogli di ministro avrebbero scemato d'un atomo la occulta disistima ond'era partito adesso quello scatto: "Sempiezzi!". Un'ombra di malcontento le restò in viso per tutta la serata, benchè di tempo in tempo il vecchio sposo cercasse farle, quasi di soppiatto, qualche amabilità, e benchè la conversazione dei soliti amici, preti e piccoli borghesi, clienti della nobile famiglia, fosse più vivace del solito. Il salotto di casa Scremin era una specie di laboratorio dove si recavano ogni sera, per la descrizione e l'analisi, parole raccolte per le altre case e per le vie, parole di riconosciuti proprietari, parole vaganti senza padrone, ogni voce da cui si potesse spremere qualche curioso fatto altrui, qualche sospetto solleticante, qualche materia oscura ove far comparire, mediante reagenti opportuni, le ombre mobili di un intrigo, ove trovar col fiuto le orme di una persona nota e seguirla poi all'odore e pungerla se possibile nella sua via nascosta e morderla un poco, tanto da gustarne anche il sapore o almeno da cogliere qualche minuscolo filo delle tenui trame di commedia che la vita continuamente ordisce, sperde e ricompone intorno a ogni persona umana. Il laboratorio non mancava nè di sali nè di acidi. Vi si faceva della maldicenza misurata e garbata su tutti i peccati del prossimo salvochè su quelli di amore. I peccati di amore non si potevano assolutamente introdurre nella conversazione. Se i due o tre più liberi parlatori della brigata si arrischiavano a infrangere il divieto, subito il marchese Zaneto alzava la voce: "Ta ta ta!" e accadeva ben di rado ch'egli fosse costretto dalla protervia di un ribelle a continuare di galoppo e più forte: "Taratatà, taratatà, taratatà!". Il buon uomo, che avrebbe avuto una spiccata inclinazione a mettersi con i farisei e a lapidar l'adultera, non usava altrettanto rigore che per le espressioni poco esatte in materia di fede. Quando non si trattava di malcostume nè di dogmi lasciava correre. Guardingo egli stesso in ogni sua parola, pareva quasi compiacersi che gli altri non lo fossero altrettanto. Una certa dose di sale comune l'avevan tutti. C'era poi un burbero giudice in pensione che aveva sempre in pronto il sale amaro e c'era un vecchio lungo, magro, giallo, arcigno, che veniva assiduamente con una moglie lunga, magra, gialla, malinconica e che non parlava se non per schizzare qualche goccia di acido. Quella sera i chimici di casa Scremin avevano nel crogiuolo il fiore del mondo elegante, l'Olimpo della piccola città. Trattar quest'Olimpo con acidi e sali era il loro più squisito piacere. Da buoni botoli borghesi non si pigliavano alcuna soggezione della grossa bestia rampante sullo stemma di casa. La marchesa Nene non pareva tener gran fatto alla bestia; il marchese Zaneto, affabile e umile con tutti, sapeva coprir bene un certo debole per essa. I nobili coniugi appartenevano a un gruppo scuro, pesante, malinconico di nobili codini, fra i quali e l'Olimpo dei ricevimenti eleganti, dei balli, dei pick-nicks, del lawn-tennis, del pattinaggio, le relazioni erano scarse e fredde. Un prete bonario, assai curioso e ambizioso cronista, mise fuori, appena venuto, la sua ghiotta primizia: "Dunque, picchenicche, gnente!". Subito il signore acido e il signore amaro, che quando potevano mordere il prete ci avevano un gusto matto, esclamarono: "Vècia, vècia! Barba, barba!". Il prete, sbalordito, irritato, rosso, affermò che la risoluzione di mandar tutto a monte era stata presa tre ore prima, alle sei, e i suoi tormentatori perpetui replicarono che alle sei e mezzo se n'era parlato al caffè e che il pick-nick era andato in fumo per causa dei forestieri di villa Diedo. "Vedìo, che no savì gnente!" fece il prete trionfante. Egli aveva una versione diversa. "E la mia xe sicura!" Una gran dama anfibia, tutta chiesa alla mattina e tutta Olimpo alla sera, aveva raccontato il fatto a suo marito in presenza del medico di casa, e il medico, amico del prete, lo aveva incontrato, gli aveva detto: "Vai a casa Scremin, stasera? Conta questa". E il prete cominciò solennemente, in lingua aulica: "Bisogna sapere che parecchie signore avevano posto per condizione che il picche-nicche si facesse di domenica per rispetto alla quaresima." "No credo un corno" brontolò il signore acido. Gli altri zittirono, il prete ribattè in dialetto: "La fazza de manco" e risalì subito sul suo pulpito dell'italiano, pulpito, per verità, un po' sconnesso e sdrucciolevole. "Dunque si sceglie domenica; questa che viene. Intanto succede che Pittimèla, Loro sanno chi è, incontra a passeggio i Zigiotti, marito e moglie, e, da balordo, li invita. I Zigiotti, figuremose! , beati, beati! La cosa si spande, succede un putiferio. Nessuno vuole i Zigiotti, specialmente le signore. Pittimèla prende una fila di titoli, ma come si fa? dicono i promotori del picche-nicche, i direttori. "Come si fa?" dice una signora. "S'intima a Pittimèla, poichè ha fatto la frittata, che se la mangi e che ci liberi come può." Un'altra dice: "Si pianta anche Pittimèla". Un'altra dice: "Si manda tutto a monte". Una quarta non dice niente, ma subito, ticche tacche, si ammala." "Benone!" brontola il signore amaro. "S'indovina chi è." "La tale!" dice il signore acido. "Mi no so gnente!" esclama il prete. "Eh caro, come se no lo savesse tuti che fra so marìo e la Zigiotta...". "Ta ta ta, ta ta ta!" squilla in furia il marchese Zaneto. "Avanti, don Serafin." E il prete continua: "I promotori, disperati, non sanno a che santo votarsi. Però, adesso vi dirò come stamattina tutto pareva accomodato per modo che alle tre una Commissione andò a villa Diedo per invitare i signori Dessiàl." "Dessalle!" interruppe qualcuno. "Va ben, va ben, de sal, de pevere, de quel che i xe." Appena uditi nominare i Dessalle, i forestieri di villa Diedo, il signore acido che li aveva designati come colpevoli della catastrofe e s'era udito smentire dal prete, cominciò a storcere la bocca, il naso, tutti i muscoli del suo viso di cartapecora, con le più lugubri e fantastiche smorfie. Don Serafino lo guardò e prima ancora che colui aprisse bocca, gli disse: "La spèta!". "Mi no parlo, benedèto!" Il prete riprese: "Fatalità volle che i signori Dessalle aspettassero amici da Venezia proprio per domenica." "E dunque?" brontolò colui che non parlava. A misura che don Serafino veniva raccontando come per effetto del rifiuto dei Dessalle si

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Argomenti: tre ore,    signore acido,    senso acuto,    campo morale,    vecchio sposo

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