Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 57

Testo di pubblico dominio

nel sole di sotto la soma d'una piramide enorme, affondati i fianchi rigonfi nell'ombra. Così, fra le due strette valli incise dai fendenti di un dio, lo sperone che porta Vena di Fonte Alta si protende dalle radici di Picco Astore a fronteggiar con due corna il gran cavo di Villascura. Lassù nella loro cintura di abissi ondulano supini al cielo i pineti e i faggeti di Vena, macchiati di smeraldo chiaro dove il prato li rompe e dilaga, picchiettati di rosso e di bianco dove stormi di casucce si annidano. Chi li contempla dall'alto dell'obliquo alato Picco Astore o delle grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina, non legge il loro minuto poema squisito. Ma il viandante vagabondo per i sinuosi lor grembi si domanda se ivi non siansi amate un momento, sull'aurora del mondo, meste Intelligenze delle montagne e gaie Intelligenze dell'aria; se la terra obbediente ai loro mobili sensi non siasi composta e ricomposta intorno ad esse continuamente in talami oscuri, in alti seggi di riposo meditabondo, in scene di malinconia e di riso, di alti pensieri e di scherzi, che poi fermate al repentino sparir degli amanti abbian serbato per sempre l'ultima forma. Ogni cosa vi ha l'impronta di un sentimento, di una personale idea di bellezza, che ci movono a sospirare per un triste, indefinibile senso dell'assenza di qualcuno che ivi passò e che avremmo amato. All'erboso velluto di un pratolino appuntato nel faggeto fra due curve ali di scaglioni petrigni dove grandi abeti montarono, scena di preludi amorosi, segue, sotto le dense, distorte braccia dei faggi, un dedalo cadente di muscosi giacigli cavi nell'ombra chiara e verde come acqua immobile di lago in un vallone del fondo. Il sentiero che gira l'omero ignudo di un colle a scoprir lontane conche di pascoli, lontane guardie di acuti abeti allineati su alture terminali di quel paradiso, sdrucciola di là verso l'orlo di una coppa vuota incavata nel prato quasi dal roteare di un vortice, ove fu dolce a qualcuno giacer sul fondo, contemplar il cratere imminente in giro, le felci pendule, gli ellebori, i ciclami, e sopra, nel bianco disco di cielo, il veleggiar eterno delle nubi. Il viandante ode tratto tratto nel vento vagabondo le diverse voci degli alberi diversi, le umili e le superbe, le tenere e le gravi. Vede sparsi nel bosco sedili di pietre candide, radi sedili di contemplatori solitari, adunati sedili di assemblee, scolpiti di geroglifici indecifrabili come i colloqui degli alberi, forse lavoro di uditori antichi, note di canti aerei fermate nel sasso, forse ricordo ai venturi di chi passò. Ma sopra il verde lucente dei faggi, sopra le conche dei pascoli e gli omeri ignudi dei colli ricompare uniforme ad ogni passo il pensiero dominante del poema, l'obliquo alato Picco Astore; e in giro alle alte sue tristi nudità ricompaiono, dovunque i sentieri cavalcano un dorso prominente, assise nei loro manti come gli amici di Job, le grandi montagne nubifere di Val di Rovese e di Val Posina. E in un selvaggio burrato dell'Astore che si cercano piangendo nel nascere le polle divise dell'Acqua Barbarena, la Fonte Alta, e tosto si appagano nel vaso di pietra onde corrono quindi, ridivise, a dolersi dolcemente ancora negli sparsi casali di Vena e nel giardino della signora che a villa Diedo, fra la conferenza di Carlino e il ballo, apprese con inquietudine pia il progetto di Jeanne, il pericolo, se Maironi la seguisse, d'una infezione mondana nella sua casta solitudine alpestre. Presso la chiesa, sull'orlo di Val di Rovese, è un piccolo albergo non posto dalle Intelligenze delle montagne nè da quelle dell'aria, rustico al pian terreno dove il vino fermenta la domenica in canzoni e vocii, borghesemente lindo le scale sonore di abete, le stanze dall'impiantito di abete, che assiti di abete dividono, odorate di abete, dov'è gradevole, forse per la funebre somiglianza, sentirsi vivere. Capitano colà l'estate dal piano modesti clienti, visini anemici, stomacuzzi inerti, piccole borse di artisti e di poeti, uno dei quali ultimi, innamorato di Vena, dell'Acqua Barbarena e di Picco Astore, ci viene tutti gli anni e ha imposto a ciascun sasso, a ciascuna zolla dell'altipiano, nomi che nessuna carta topografica riproduce e che tuttavia trovano favore. Così si spiega lo sbalordimento di un ingegnere del Catasto, che recatosi all'Hôtel Astore in cerca di Carlino, una domenica, quindici giorni dopo l'arrivo dei Dessalle a Vena, si udì rispondere dalla cameriera che il signore non era in casa e che forse lo avrebbe trovato nel Covile del Cinghiale. Il Covile del Cinghiale si cela tra gli anfratti di una costa selvosa a pochi passi dall'albergo e dal villino dei Faggi dove la signora Cerri, la confidente del candido maestro Bragozzo, stava con la sua famiglia da dodici giorni. Fra una lama scoperta di ripido prato e una profonda coppa, la "Pentola degli Stregoni", onde sopra minute plebi di arbusti salgono abeti a glorificarsi presso le nuvole, tre macigni si porgono dal pendio come tre scarnati menti di vecchioni. Nel mediano il poeta fantastico raffigurò un grugno di cinghiale. Dal destro e dal sinistro pendono i due capi della breve semicorona di faggi che forma il Covile. Due giovani abeti ne fiancheggiano la stretta bocca, altri due si disegnano nell'intervallo dei tronchi un finestrino che guarda, oltre la lama verde, una muraglia di tozzi faggi fogliuti e bassi. Nell'ombra mobile del Covile, sforacchiata di sole, stavano a conversare, seduti, Carlino Dessalle, la signora Cerri, il maestro Bragozzo, ospite dei Cerri, Bassanelli sfuggito per due giorni alle cure del Governo, il poeta fantastico e il notaio di Vena, un savio, lento di gambe e di parola. I cinque bambini della signora Cerri facevano il chiasso nella "Pentola degli Stregoni". La signora lodava l'aria di Vena, così penetrata di spirito puro e anche ilare. Soggiunse timidamente, arrossendo nel dubbio di fare un discorso pretenzioso, alcune parole sulla purezza ilare di certi Santi, di certe anime elette che tuttavia s'incontrano qualche volta nel mondo. Allora il candido maestro la guardò con una faccia illuminata di ricordi sottintesi e le disse, pensando alla conversazione di villa Diedo, che nell'aria di Vena non c'era odore di quei tali pasticci. "A pian!" fece il notaio, esperto dei costumi venaschi. Non potè metter fuori la sua esperienza perchè Bassanelli saltò in mezzo a dire che l'odor di pasticcio a lui non dispiaceva e che invece l'aria di Vena era salubre perchè non vi era mai odore di abiti neri nè a coda nè senza coda; "nè de velade nè de veladoni!" La signora Cerri osservò, approvando la chiusa del discorso Bassanelli e deplorando in cuor suo l'esordio, che già nel paese degli abiti neri una punta di putrido c'era sempre nell'aria. Allora Carlino ribattè che si doveva dire molto maturo invece di putrido e che questo odore di avanzata maturità non era un difetto ma una squisitezza perchè conteneva in sè l'idea della perfezione più che perfetta. Perciò gli faceva molto piacere di apprendere dal signor notaio che fra l'aria di Vena e l'aria della città, riguardo a certi odori, non ci fosse differenza. "A pian, a pian!" esclamò il notaio. E subito la signora invocò il poeta. Che ne pensava il poeta? Il poeta, che solo appariva tale nella zazzera e nella cravatta male composta, che si chiudeva, quando la gente pareva curarsi poco di lui, in accigliati silenzi e invece quando gli si mostrava deferente sfrenava subito la sua parola incomposta quanto la cravatta e la zazzera, cominciava a rodersi che nessuno lo introducesse ossequiosamente nella discussione; per cui lodò molto in cuor suo la intelligenza superiore della signora Cerri e prese le parti di lei con tutto il fervore delle sue opinioni e del suo irritabile amor proprio, mescolati insieme, spumanti. Mediocre artista, si diceva piccolo a parole, si teneva grande nel cuore. Gli pareva esser male apprezzato nel paese degli abiti neri mentre negli alberi

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Argomenti: piccolo albergo,    intelligenza superiore,    alato picco,    poeta fantastico,    candido maestro

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