Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 64

Testo di pubblico dominio

appassionatamente. Ella gli fe' segno, col dito alle labbra, di tacere, come s'egli alzasse la voce contro Dio che voleva così. Poi mosse un po' il capo su per il guanciale, gli abbandonò la mano sul braccio, lo guardò affannata, supplichevole. Non gli pareva che Dio fosse stato abbastanza buono con lei? "Una grazia grande, sai, del Signore, avermi svegliata, avermi chiamata così. Una grazia grande avervi qui tutti, anche quel santo don Giuseppe che mi aiuta. Zitto, caro, zitto." Ella tacque, lo trasse a sè, fece un visino afflitto, gli bisbigliò senza guardarlo: "Non sono stata una buona moglie — zitto caro, zitto — no, ti volevo tanto bene, tanto tanto e non ho saputo dimostrarlo, devi avermi creduta fredda, è stato un gran male, adesso lo capisco." Gli cinse il collo con ambe le braccia, gli mormorò all'orecchio: "Caro, vuoi che ci perdoniamo tutto? Proprio tutto, tutto? Anche quello che tu non sai di me? Anche quello che io non so di te?" Egli si staccò dolcemente dal collo, piangendo, le sottili braccia, s'inginocchiò, si strinse sulle labbra una mano di lei che pure lacrimava. In quel momento la marchesa, impaziente della lunga dimora di Piero, aperse l'uscio per richiamarlo. Vide, tacque, si ritirò. Don Giuseppe alzò gli occhi dal breviario a lei, credette che uscisse dalla camera dell'inferma, le domandò notizie. Ella rispose col suo solito sorriso: "Non so, vedo che non mi vogliono". E anche a lei caddero due dolci lagrime. Intanto l'inferma fece alzare suo marito, gli parlò ancora: "Sei tanto giovane, non hai nessuno, col tempo..." Si commosse, non potè compiere la frase. Finalmente gli cinse un'altra volta le braccia al collo, gli disse ansando: "Ti ricorderai di me, vero? Pregherai per me anche allora? Preghi come una volta, caro?" Piero non rispondeva. "Non preghi più come una volta?" Nessuna risposta. "Non preghi più? Hai perduto la religione?" Egli non potè mentire, benchè ne fosse tentato. "Perdonami!" supplicò accorato. "Perdonami!" Solo udì, nel silenzio mortale, l'affannoso respiro dell'inferma. Ella giunse alfine le mani dicendo piano: "Oh Piero!" Alzò gli occhi pieni di angoscia, pregò dal fondo dell'anima, ineffabilmente, offerse per lui le pene sue presenti e quelle attese della purificazione futura. "Signore, Signore" pensò "non lasciatemi morire così!" E subito ebbe un momento quasi di rimorso, si affrettò a soggiungere dentro di sè: "Però sia fatta la Vostra santa Volontà". Poi chiamò con voce fievole: "Caro." Chiese il fazzoletto. Avutolo, cercò di recarselo agli occhi e la mano le ricadde sulle lenzuola. "Non ho più la forza" diss'ella. E aperse la mano. Allora, tremante, straziato, volendo pur dire una parola consolatrice e non riuscendovi, egli le terse col fazzoletto gli occhi lagrimosi. La poveretta potè appena dirgli: "Grazie. Chiamami la mamma." IV Gli Scremin, don Giuseppe Flores e Maironi alloggiavano in un piccolo albergo vicino allo Stabilimento. Dopo la visita del professore, che trovò la febbre ancora piuttosto alta, una penosa inquietudine e il cuore depresso ma nessun pericolo imminente, don Giuseppe e Zaneto si ritirarono. La marchesa si accinse a passar la notte nella camera di sua figlia con la suora. Piero rimase nel salotto attiguo, sdraiato sul canapè, solo, al buio. Era stanco, aveva il capo grave di sopore e tuttavia non si era voluto allontanare di lì. Si addormentò verso le due, sognò un caos di figure assurde, di avvenimenti impossibili, tanto complicati e lenti che allo svegliarsi credette aver dormito un secolo. Si rizzò, quasi atterrito, a sedere sul canapè, chiedendosi dove fosse. Nel vano della finestra spalancata luceva un grande pianeta. Tese l'orecchio. Dalla camera dell'ammalata non il più lieve rumore; dalla finestra fievoli vocii confusi come di una moltitudine discorde. Andò ad ascoltare: grida, urla delle agitate, da una casa lontana. Ora si udivan forte, ora, col mutar dell'aria, venivano meno. La campagna scura, immensa, era silenziosa come il cielo. Nessun segno di vita. Piero aveva dormito mezz'ora. Gli venne languida in mente l'idea che le medesime stelle lucevano sui pascoli, sui boschi di Vena; e passò. Gl'infiniti occhi delle stelle parevano conoscere la domanda dell'inferma: "Hai perduta la religione?" e guardar tutti a lui tristamente. Cosa volevano da lui? Egli pure guardò fiso il pianeta, pensando, senza volontà, pensieri che avevano un ordine in sè ma gli venivano disordinati nella coscienza e misti ad impressioni dei sensi, come, insieme a qualche curioso, si affrettano confusi gli invitati di ogni grado al convegno d'un corteo predisposto in ogni sua parte, giusta norme fisse di precedenza. "Potevo dire: ho la religione della giustizia." Dio, se a Vena fosse successa quella cosa! Che orrore, poi, esser baciato, esser abbracciato da te, povera creatura! "Che vile, che vile, che vile!" In questo violento disprezzo di sè gli occulti pensieri gli salivano stridenti sulle labbra. Poi ridiscesero. "Che sarebbe successo di me? — Tutto sarebbe caduto. Che vile! — Niente niente niente; la religione della giustizia non mi ha difeso niente. — È stato il caso: Bassanelli. Proprio un caso? — Jeanne è tanto migliore di me, con tutto il suo scetticismo. Se Jeanne credesse in Dio sarebbe tutta sua. — E i miei presentimenti? Dove finivano i miei presentimenti? — Tutto un giuoco, tutto un caso? — Dio mio, Dio mio, se io perdessi la mente, se io dovessi proprio star per sempre qui dentro, finire come queste che urlano! — Padre mio, sei tu in quel pianeta? — No no no, padre mio, padre mio, credo, sai, credo in Dio, credo, credo, ho creduto sempre, forse vengo anch'io dove sei tu, dov'è la mamma! L'Elisa viene da voi ma forse un giorno vengo anch'io!" Represse a forza l'onda dei singhiozzi irrompenti dalla gola. Si strinse sul petto le braccia incrociate, si morse il labbro inferiore, le grosse lagrime gocciarono silenziose. Quando infine potè dischiuder le labbra e, ansando, asciugarsi il pianto, ripetè più volte, con infinita dolcezza interna ma piuttosto ancora macchinalmente che con deliberato consenso, che con deliberato proposito, le parole di Elisa: "Del Signore — del Signore — del Signore". I singhiozzi ritornavano, li soffocò, alzò il viso al grande spettrale pianeta, alle stelle. Ah, la morte d'Elisa era scritta negli infiniti occhi tristi del cielo! Pensò, pensò, pensò, gli attraversò i pensieri, lenta, la visione di Praglia, del grande monastero abbandonato, delle logge dove fanciullo aveva creduto sentire un appello arcano. La visione passò, il pensiero gli venne meno in una nebbia interna, le stelle gli si oscurarono, non ebbe più senso che del proprio smarrimento, della frescura umida e delle grida, degli urli, dei pianti dal riparto delle agitate. Trasalì, una mano gli si era posata sulla spalla, lievemente. Si voltò; la marchesa. Era entrata, aveva acceso il lume senza ch'egli se ne avvedesse. Elisa desiderava don Giuseppe. Niente di nuovo. Era un desiderio, così; voleva dirgli qualche cosa, temeva forse di scordarsene. "Che bellezza di notte!" soggiunse dolcemente la vecchia signora, uditi i gridii lontani delle pazze; e chiuse la finestra. Dopo aver veduto Piero ginocchioni al letto della sua figliuola in quell'atto di amore e di dolore, ella gli parlava come un forte a un debole, con una profonda vena di tenerezza, con la più delicata cura di non allarmarlo, di non affliggerlo. Gli disse di andar a chiamare don Giuseppe, di restare poi all'albergo, di dormire un paio d'ore, almeno. "Fai chiamare il papà verso le sei" diss'ella, "e guarda che col caffè gli portino un po' di latte perchè c'è abituato." Piero le baciò la mano ch'ella ritirò, in fretta, per troncare, per tornarsene subito dalla figliuola. Le sarebbe caduto ginocchioni ai piedi perchè sentiva che la povera donna non sperava più, che la sua calma, la sua dolcezza, le sue vigili attenzioni erano un miracolo di

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