Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 42

Testo di pubblico dominio

quando, la sera dell'eclissi, gli aveva pôrte le labbra, premendo, per prudenza, il bottone del campanello elettrico. Le pareva che il suo amore non potesse più crescere e insieme che crescesse sempre. Non pensava che lui, non sentiva che lui e se nei primi tempi la tormentava inesprimibilmente il sospetto di non essere amata che a parole o come un fantasma, un'idea impersonale dell'amore, o come un vaso chiuso di piacere, adesso le pareva persino, qualche volta, che le sarebbe bastato di amare, di amare, di amare, le pareva di poter rinunciare a essere amata. Quando la sua salute delicata era buona, l'aspettazione di lui e la sua presenza e il partirsene la facevano soffrire; quando invece non si sentiva bene non vi era per lei ristoro maggiore che il vederlo. Le avveniva di sognare ch'erano sposi in un altro paese, in un'altra casa, in mezzo ad altra gente, ch'egli le parlava sottovoce, con dolcezza ma con autorità, di cose serie, che ciascuno aveva le proprie stanze, ch'ella neppure osava di fargli una carezza e ch'era tuttavia beata di appartenergli così. Amava tanto e non però ciecamente. Credeva conoscere Piero, i difetti e gli eccessi della sua natura, meglio di qualunque altro, meglio, sopra tutto, di lui stesso. Credeva leggergli nel cuore il segreto di quelle inquietudini ch'egli forse non sinceramente le diceva di non sapere spiegare a se stesso. Confidava sì di essere amata ma si teneva sicura che l'amore di lui non pareggiasse più nel cuore le proteste che le labbra ne facevano ancora; e la coscienza di questa scarsa sincerità doveva riuscirgli tormentosa. Si teneva pure sicura che tanti anni di educazione religiosa, di ardente fede cattolica, di pratiche pie avessero impresso a quell'anima una forma che, modificata dalla ragione dentro l'ambito della coscienza, le permaneva intatta nelle inconscie profondità; e attribuiva le inquietudini strane a un vago sentimento di rimorso asceso da quel Profondo, religioso ancora. Certa di possedere l'amara verità, ella non desiderava tuttavia di comunicare all'amico uno scetticismo cui lo vedeva ripugnante; le piaceva di udirlo difendere con appassionata parola le sue convinzioni religiose superstiti, Iddio e l'anima immortale; desiderava soltanto e sperava che nella innocenza del loro legame quei vapori di rimorso finissero con venir meno. Lo aveva dunque incuorato a occuparsi sul serio de' propri affari, ad assecondare gl'insistenti richiami onde l'agente di Brescia, sobillato dalla marchesa Nene, lo molestava senza posa. E gli aveva ricordato la sua consueta gita del maggio in Valsolda. Egli era già in ritardo, quest'anno! Qui seguì fra loro un po' di contrasto. Piero non pareva disposto ad andare in Valsolda. Perchè? Non lo disse, non lo sapeva. Non ne aveva voglia, ecco. Jeanne sospettò di esserne involontariamente in colpa. Se nel bollore della passione Piero le aveva parlato del lago come la notte dell'eclissi, sui colli, adesso invece i vapori del rimorso gli suggerivano forse di star lontano dalla casa di suo padre e di sua madre, dove si sarebbero fatti più neri e acri. Lo incalzò di domande, d'istanze, volendo strappargli qualche espressione dell'ingiusto sentimento, che le permettesse di lottare apertamente con esso. Non le riuscì. Giunse a pregarlo, con parole di tenerezza e di riverenza per le memorie a lui sacre. Egli la ringraziò affettuosamente e troncò il discorso. Sulle prime neppure voleva saperne di andare a Brescia. Meditava un viaggio in Francia e nel Belgio, a scopo di studiarvi certe società cooperative di produzione, le case fondate da Leclaire e da Godin, il Vooruit di Gand, non alieno dall'indossarvi per qualche tempo, se occorresse, le blusa dell'operaio. Non tenendosi ancora sufficientemente preparato a questo viaggio, finì con piegare e partì per Brescia. Aveva scritto, dopo la partenza, tre volte e l'ultima sua lettera era veramente in colpa degli occhi rossi di Jeanne. Ella scese per questa gran vendemmia di fiori nel viale che corre diritto fra una lunga riga di thuye e le spalliere delle rose aggrappate a quel fianco della Foresteria, che guarda la valle del Silenzio. Il giardiniere Pomato, che con tutto il suo anarchismo coperto aveva una soggezione manifesta della padrona, così buona conoscitrice di fiori, così ragionevole e ferma negli ordini, così dignitosa e umana nei modi, così signorile nella figura e negli atti, quel giorno era nero addirittura e si nascondeva poco. Si era portata con sè alla vendemmia la sua figliuola maggiore Partenope, maestra disoccupata da due anni. Poichè Jeanne, veduta una lagrima negli occhi di Partenope, le ne aveva domandato due volte, e sempre invano, la ragione, rispose lui per la figliuola. Rispose, stroncando rabbiosamente disgraziati gambi di fiori, che le canaglie della Commissione scolastica municipale l'avevano respinta in un esame di concorso perchè sorella di Ciotti e perchè "no la xe sampatica." La povera Partenope, una ragazzona tozza, infagottata negli abiti civili, con la tinta giallognola della grammatica e dell'aritmetica sulla grossa faccia villana, non era però antipatica; solo faceva pensare a una puledrona da carretta nei finimenti di un cavallo da calesse. Jeanne, benchè avesse pieno il cuore della lettera di Piero, di ansie, di foschi presentimenti, del vicino sperato incontro, parlò con pietà sorridente a quell'amaro dolore che a lei pareva tanto piccola cosa, tanto indegna di lagrime, e non era, perchè la vita di famiglia correva ben dura per la grossa Pape, come la chiamavano i suoi, fra il padre violento, il fratello sprezzante, la madre avara; e qualche gentile, fragile sogno era pur fiorito nella sua rozza mente come le rose su quella rustica muraglia, e come le rose ne cadeva stroncato, povera Pape. Jeanne, soddisfatta di averle detto due parole con bontà, si avvicinò, in attesa che i panieri fossero pieni di fiori, verso il gran leccio del bosco, che le faceva invito laggiù in capo al viale caldo nell'ombra dorata delle thuye, nel riflesso dei muri sfolgorati in alto dal sole scendente. Giunta nel bosco fresco e scuro, pendente alla valle del Silenzio, dove le pareva che l'erbe e le frondi basse le mormorassero "sola?" si levò dal seno la lettera di Piero, incominciò a rileggerne, tremandole le mani, l'ultima pagina e subito, come volendo sfuggire a qualche amaro di quella chiusa, risalì alla data — Oria — vi fermò lungamente gli occhi, ridiscese alle parole prime: "Vedi dove sono, perdonami di non averti scritto che ci venivo, è stata una cosa inesplicabile. L'altra notte, a Brescia, mi sono svegliato di soprassalto con quest'idea, con la memoria viva delle parole tue quando mi esortavi al viaggio di Valsolda, forse le avevo riudite in un sogno che non ricordo, con la trepidazione, quasi, di subire un impulso del soprannaturale. Cercai di liberarmene, avrei voluto andare, la mattina, a Monzambano. Non ci fu verso, dovetti pigliare il treno di Lecco. "Viaggiai, sino a Lecco, in uno stato di torpore che si mutò in agitazione grande appena fui sul battello. Mi sono domandato se non ero sulla via d'impazzire! A Menaggio mi tranquillai alquanto. Invece quando il lago di Como disparve in basso e il treno entrò nella valle alta, fra le montagne ombrose, guardando passare pratelli, campicelli, macchie di bosco, casine attorniate di abeti, stradicciuole, tetti lontani, tante cose note al loro noto posto, mi sentii un intenerimento, uno struggimento, una voglia di piangere da non dire; e insieme, Dio sa perchè, un disgusto immenso degli uomini, una stanchezza immensa della vita." Ella si ripose la lettera in seno, pensò a quel che veniva in seguito, ferma sul sentiero, con la mano inquieta in un fresco fogliame di alloro; e solo si mosse quando udì il giardiniere chiamar la Pape, dimandarle se là dov'ella era fossero ancora molte rose da cogliere e la Pape rispondergli che v'erano soltanto spine. "Boni per nualtri, i spini!" replicò suo padre. "E per me

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Argomenti: due parole,    vago sentimento,    star lontano,    ristoro maggiore,    scolastica municipale

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