Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 51

Testo di pubblico dominio

di casa, non si tenne dal mormorare: "Baciate il piede al successor di Piero". Donna Bice sorrise di un sorriso profondo e si affrettò a informarsi di Maironi. Era veramente interessante? "Qui non piace" rispose la D'Ambiveri. "Lo trovano troppo serio. Adesso questo amore lo ha riabilitato un poco, ma non basta. Bisognerebbe che piantasse Jeanne e ne pigliasse un'altra." "Ti lasceresti pigliare, tu?" "Io? Ma che dici? Povero Alberto! Capisco Jeanne, del resto. Poichè poi Maironi ha una figura aristocraticissima e non è bello, veste bene e non è un elegante nè dev'essere di quelli che ti schiccherano una dichiarazione due ore dopo averti conosciuta. Aggiungi che quell'uomo lì, con la rapa di moglie che ha avuto, dicono, e, con la vita che ha fatto, deve aver portato a Jeanne tesori intatti di passione. Insomma capisco Jeanne e non farmi dire altre sciocchezze." IV Un improvviso rombo di tuono troncò il ballo. Invano Bertha Rothenbaum, con una familiarità di zitellona esperta e bonaria, propose alle pupille della Raselli di aspettare la pioggia per battezzare un bel giovane israelita che ballava il dancing a meraviglia. Le carrozze erano state annunciate da un pezzo e gli invitati presero la fuga. Ad una ad una le coppie di fanali si vennero spiccando dal mobile guazzabuglio che ne luceva davanti all'ingresso della villa, corsero via velocemente lungo il muro di cinta, scomparvero nelle tenebre. Un altro lungo rombo di tuono empì le ombre del giardino, entrò per le finestre aperte nelle sale della villa come la voce formidabile di un minaccioso Padrone che dalla sua nera tenda di nuvole chiedesse conto alle vanità umane, alle cose spaurite e mute, di averlo dimenticato. Le finestre furono chiuse, gli ultimi passi e le ultime voci dei servi tacquero. Appoggiata al balcone della sua camera da letto, Jeanne, stanca e insonne, ascoltò inconscia i fremiti delle frondi inquiete nel basso, guardando il continuo lampeggiar silenzioso sul ciglio nero dei colli, simile a un continuo febbrile chiudersi e aprirsi di un grande occhio di fuoco nel cielo. Assaporava la solitudine libera, il dolce alleviamento di un incomportabile peso di simulazione. Se Maironi fosse stato presente ella non avrebbe sentito che il piacere di venire ammirata davanti a lui per la sua bellezza, per l'eleganza, per lo splendore dell'ospitalità. Tutto gli avrebbe offerto nella sua mente questo tributo di omaggi altrui! Anche a lui assente avrebbe potuto offrirli con gioia, senza la lettera dolorosa. Così, quelle lunghe ore non le avevano dato che fatica e tedio. Mai la gente non le era parsa tanto sciocca e falsa, mai non si era parsa tanto sciocca e falsa ella medesima. Il fragore del tuono, i fruscii delle frondi, l'occhieggiare continuo dei lampi la ristoravano, con la sincerità loro, di tanto simulare e veder simulare. E piacevano a lui! Dio, che le aveva detto Bassanelli? Suo padre! In passato ella ne avrebbe sorriso; ma ora! Incominciò a piovere quietamente, silenziosamente. Si ritrasse dal balcone, aperse il cassetto dello scrittoio. La lettera era lì, presso la teca di argento dove Jeanne custodiva le altre di lui, il suo tesoro. Ne soleva rileggere qualcuna ogni sera, e il profumo di héliotrope che usciva dal cassetto aperto le ridiceva le parole dolcissime a cui era solita di ritornare. Oh non questa sera! Questa sera gli occhi suoi ritornarono alle parole tristi. "... quando udii per un momento suoni fievoli di campane grandi che parevano incommensurabilmente lontane. Venivano dall'alto e non so dire la impressione che facevano in quel gran buio, in quel gran silenzio. Stetti in ascolto con la mano all'orecchio, trattenendo il respiro. Non udii più niente. Ossia, udii una voce vicina dire nel dialetto del paese: "I campann de Püria". Era il custode della casa, il sindaco di Albogasio. Pensai che si fosse annoiato di aspettarmi, gli dissi che poteva andarsi a coricare. "C'è qui la Leu", dice. "La Leu?" faccio io. "A quest'ora?" — "Ma", dice, "è un po'!..." e compie la frase sorridendo, col solito gesto della mano alla fronte. "È un pezzo" dice, "che va dietro a domandarmi quando viene e quando viene perchè ha da dirgli delle cose, delle cose vecchie e io domando cosa sono e lei risponde che non le può dire a nessuno, ma io, già credo... eh!" Gli diedi l'ordine di condurmela. Poco dopo udii la voce della Leu: "Avete capito che non dovete star qui, voi? Avete capito che non dovete stare ad ascoltare? Eh? Avete capito?". Infatti il sindaco se ne andò ridendo. "La povera vecchia incominciò con offrirmi un canestro di prugne verdi e poi mi fece un mondo di ciarle sulla buona salute mia e sulla cattiva salute sua, sul desiderio, che la tormentava, di vedermi e sulla paura di morire prima ch'io venissi, sulla malignità de' suoi parenti e anche del Tognin, il custode, che la credono mentecatta. Si commosse, ricordando, come sempre me lo ricorda, il caffè che aveva portato a mio padre proprio lì dove stavamo, la notte ch'egli venne segretamente da Lugano, per la montagna, e trovò la mia povera sorellina morta. Io non pensavo che avesse cose nuove a dirmi, supponevo che finisse col domandarmi qualche soccorso e mi feci raccontare da capo tante cose dei miei genitori che sempre mi fa piacere udire da lei, la condussi a ripetere certo suo discorso abituale: "Lü l'è on bel scior e on bon scior, ma i Soeu vecc i eren bej e bon al doppi". Finalmente mi disse che aveva paura di venire sgridata dal Tognin se si fermava troppo e che doveva darmi la cosa, per la quale era venuta. "Qui cominciò a parlarmi di quel che accadde in casa mia negli ultimi giorni della malattia di mia madre e nei primi giorni dopo la sua morte, avvenuta il 26 gennaio 1862 per una polmonite presa al cimitero, di ritorno da una corsa al villaggio nativo, Castello, soffiando la breva. Secondo la Leu ci sarebbe stato allora qui un vero saccheggio. La casa era sempre piena di gente e chi pigliava una cosa e chi ne pigliava un'altra. Mio padre era morto due anni prima, io avevo poco più di due anni. Venne da Brescia un incaricato di mia nonna, chiuse la casa, nominò un custode, il padre di Tognin, e mi portò via. "La Leu pretende avere avuto in dono da questo incaricato i mobili della sua camera da letto e un vecchio tavolino ch'ella giura e spergiura esserle stato promesso dalla povera mamma. In questo tavolino trovò un grande portafogli ricamato dalla mamma per mio zio Ribera. Danaro non ce n'era, dice lei. Lo credette vuoto e lo tenne anche per memoria del signor ingegnere. L'inverno scorso capitò a Oria un notaio di Porlezza e la Leu, che ha una casetta, un po' di bosco e qualche piccolo risparmio, pensò di fare testamento, di lasciare a me, forse per uno scrupolo di coscienza, quei mobili e anche il portafogli, che mostrò al notaio. Il notaio vi frugò dentro, si accorse che vi erano delle carte, diede loro un'occhiata e le disse di restituirmele subito perchè, senza valore per lei, a me sarebbero state care. Ella mi pregò di accettare la restituzione delle carte e anche del portafogli. Mi disse che lo aveva portato di nascosto per non lasciarlo vedere dal Tognin. Infatti lo levò, per darmelo, di sotto le prugne. "La congedai e salii palpitante a chiudermi nella mia camera con il prezioso portafogli. Non è veramente un portafogli, è una cartella montata in velluto nero, con la scritta ricamata in oro "Ingegnere Pietro Ribera" e con molte guaine interne, due delle quali contenevano appunto delle carte. "Oh Jeanne, Jeanne, quale lettura! Quale tenera, pacata commozione in principio e poi quale calda, torbida tempesta! "S'indovina che mio zio non si servì mai della cartella e che dopo la morte di lui, avvenuta alla Isola Bella, pochi mesi prima ch'io nascessi, se n'è servita la povera mamma come di un reliquiario. "Prima mi vennero alle mani alquante lettere scambiate fra lei e mio padre quando mio padre era emigrato e mia madre con la mia sorellina, con lo zio e la sua

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Argomenti: due ore,    bel giovane,    voce formidabile,    solito gesto,    grande occhio

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