Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 66

Testo di pubblico dominio

un comando preciso. Si tratta per ora di una rinuncia completa e, più tardi, quando Iddio vorrà, di una responsabilità gravissima da impormi, di un'azione personale straordinaria da esercitare pubblicamente nella Chiesa. Sì, non è vero? Debbo crederlo!" "Deve prima di tutto rimettersi l'anima in pace" rispose don Giuseppe. "Deve ringraziare il Signore che La richiama e pregarlo, pregarlo con la maggiore insistenza che La illumini, che Le faccia conoscere la sua volontà con tutta quella certezza di cui è capace la natura nostra, finita com'è nelle sue comunicazioni con la sapienza infinita. Perchè tante volte certa presunzione umana trova modo di mescolarsi a movimenti pii dell'anima nostra e ci induce a scambiare per fatti di origine soprannaturale fatti che derivano invece da condizioni anomale del nostro spirito e del nostro corpo, operati da Dio sempre, perchè Dio opera tutto in tutto, s'intende, con i suoi metodi, per i suoi fini imperscrutabili, ma fatti non diretti a farci conoscere la sua volontà. Vede..." Qui don Giuseppe parve esitare per un certo imbarazzo e la sua voce diventò più tenera: "... non domandiamo noi al Signore che ci conservi la Sua Elisa? Pensi, questa grazia, quanto deve influire sulla Sua vita, se ci è fatta o non ci è fatta!" "Oh sì, sì, Dio mio, è vero, ma la visione l'ho avuta!" "Ma sì, ma sì!" fece don Giuseppe. "E il Signore potrà confermarla. Intanto vi hanno cose che egli sicuramente vuole: rimetterle tutto il Suo debito, piccolo o grande che sia..." "Grande, grande, grande!" interruppe il giovine, desolato. "... essere conosciuto e amato da Lei come una volta, meglio di una volta. Forse ha qualche altro gran dono in serbo per Lei. Preghiamo e speriamo! E adesso andiamo a consolare quella poveretta, non è vero? Andiamo a dirle che le sue preghiere sono state esaudite!" Piero si recò alle labbra una mano, riluttante, del vecchio: "Vada Lei, vada Lei" rispose. "Glielo dica Lei, adesso!" Il chierichetto entrò per avvertire don Giuseppe, a nome del parroco, ch'era vicina l'ora fissata per l'amministrazione dell'Olio Santo all'inferma. Piero uscì dalla sagrestia sentendo che don Giuseppe inclinava a prender le sue visioni per effetti di una sovreccitazione nervosa, per apparenze vane. Malgrado se stesso, ne soffriva. Mentre don Giuseppe gli aveva esposte quelle considerazioni prudenti, aveva dubitato anche lui. Poi l'anima sua si venne lentamente componendo in una pace piena di certezza, come acque agitate posando poco a poco fermano in sè le immagini delle cose imminenti. VI Il sacramento è amministrato, il male precipita, l'inferma non parla più, la speranza terrena esce a capo chino dalle camere silenziose, le speranze celesti entrano solenni e soavi, annunciando col dito alle labbra un angelo vicino, spirando pace e mansueta riverenza persino alle cose. In ogni volto è una compostezza grave, nulla si domanda più ai medici, essi pure hanno in viso il rispetto del mistero; don Giuseppe legge, presso al letto, parole sante, non si ode altra voce, neppure si osa piangere. Di fronte alla morente, all'arcano che si compie su quel letto, alla solennità delle sante parole, solo grandeggia la madre. Hanno studiato di prepararla, le hanno detto vagamente il presentimento della figliuola, tacendo l'ora; ed ella, come se non volesse sapere o se già sapesse, neppure volse a chi le parlava i suoi grandi occhi neri sgomenti e severi, fissi nella divina Volontà. Ha risposto in piedi, piegata sulla spalliera di una seggiola, alle preghiere del rosario che don Giuseppe disse nel salottino. Nessuna parola le esce più di bocca, non si move ad atti di dolore mai. La prima volta nella sua vita siede per lente, interminabili ore allo stesso posto e i medici, l'infermiera la guardano di tratto in tratto come un'augusta cosa, evitando di passarle troppo vicino e nel passare piegano la fronte. L'inferma non parla più ma comprende ancora. Ha compreso dolcissime parole di letizia che don Giuseppe, subito dopo il sacramento, le ha dette all'orecchio; ha sorriso, ha cercato Piero con lo sguardo, lo ha visto ritto là, le povere labbra si agitarono a più riprese per parlare, non lo poterono; gli occhi allora dissero tutto, la gioia, la tenerezza, persino un umile ossequio; si alzarono al cielo; ridiscesero; ancora le povere labbra si mossero invano. E a don Giuseppe, che lo guardava, il viso di Piero apparve trasfigurato, non dal dolore, da un'energia spirituale sovrumana, luminosa e muta. Le ore passano lente, interminabili, brevi soste interrompono il cammino della morte, i medici tentano qualche penosa inutile difesa; Piero li prega con autorità che lascino il bramoso spirito uscire in pace. Vengono lettere, vengono telegrammi chiedenti notizie, bene auguranti, nè la marchesa nè Piero li voglion vedere, son messi da parte. Viene dalla stazione, alle cinque di sera, il fattore di casa Scremin col pretesto di prender notizie, in fatto perchè pensa che se la signora muore si avrà bisogno di lui. Domanda se si debba trattenere. Si trema, si evita di guardarsi, non si risponde. Quegli si ritira senza richiamo nè saluto ed è il Direttore che gli dice di restare, di aspettare all'albergo. Suonano le sei. Coloro che sanno pensano: "Forse un'ora, forse due, forse tre ancora, non più." Il Direttore insiste perchè la famiglia e don Giuseppe prendano qualche cibo ch'egli ha fatto preparar loro nel suo proprio quartiere. Don Giuseppe e il marchese si fanno portar qualche cosa nel salottino; Piero e la marchesa non si muovono dalla camera. Suonano le sette. Forse due ore ancora. Per le finestre spalancate si vedono spegnersi nel settentrione ad una ad una le cime accese delle montagne, salire l'ombra. Le campane della chiesetta vicina, della città lontana, suonano l'Ave Maria della sera e posano. Stelle, stelle, stelle si accendono in oriente. La campana della chiesetta ricomincia a suonare, suona ad agonia. Sono le otto e cinquanta minuti. Don Giuseppe recita ad alta voce le preghiere per i moribondi, accosta e riaccosta il crocifisso alle labbra smorte della travagliata che non ode, non vede più, tutti della famiglia e suor Eletta pregano ginocchioni, l'angelo di Dio entra. Si fa un silenzio sepolcrale, è udito il passo di un viandante, un canto lontano nei campi. Il medico si china sul volto più bianco del guanciale ove posa, illuminato da un sorriso, semiaperta la bocca e immobile; guarda don Giuseppe, tacendo. Don Giuseppe si china pure, giunge le mani, si rialza, dice con voce sommessa, devota come all'altare: "Non è morte. È lume di vita eterna." Un solo fiore non perdette per lei l'ora sua breve, la madre non ne volle sul letto funebre. VII Verso mezzanotte, in uno stanzino dell'albergo ammorbato di muffe, al lume di una candela di sego, Piero e don Giuseppe ragionavano insieme, a bassa voce, della morta, dell'occulto tesoro spirituale ch'era stato in lei. "Aveva in questo la natura di sua madre" disse Piero. Allora don Giuseppe sospirò. Stette per qualche momento immobile e muto, quasi a considerar mentalmente la madre mirabile, e poi si levò di tasca un astuccio, dicendo che gli doveva consegnare qualche cosa da parte di lei appunto. Tempo addietro, quando era venuto dal manicomio quel s'ofro pieno di angoscia e di speranza, la marchesa aveva segretamente incaricato don Giuseppe di far incidere in una medaglia d'oro parole appropriate a un dono che l'Elisa risanata ne farebbe, in memoria del beneficio divino, al marito. Partendo al richiamo del Direttore ell'aveva preso con sè, come un augurio, la medaglia che ora don Giuseppe era per consegnare in nome di lei a Piero come una reliquia. Sopra una faccia della medaglia si leggevano, in giro, le parole di Cristo: VENITE AD ME OMNES QUI LABORATIS ET ONERATI ESTIS ET EGO REFICIAM VOS. Sull'altra era inciso, nel mezzo: REFECIT NOS ME REDDIDIT TIBI ET TE MIHI. Piero prese la medaglia e, leggendovi le parole di Cristo, mise una esclamazione, come

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Argomenti: due ore,    capo chino,    maggiore insistenza,    certo imbarazzo,    momento immobile

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