Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 68

Testo di pubblico dominio

manìa religiosa; può darsi benissimo che restino sempre dentro certi limiti di tempo e di misura, ma può anche darsi che progrediscano. E adesso Lei capisce la ragione del mio discorso. Credo proprio di aver compiuto un dovere." "Eh!" fece don Giuseppe, tristemente, a capo chino, come persona che in materia grave non ha nè può avere la certezza desiderata, ma inclinerebbe a un'opinione diversa da quella che lo fa pensoso: "Grazie". L'altro prese congedo. IX Finito di recitare il rosario col marito, consigliatogli di prender sonno se poteva, accomodatogli il suo scialle sulle ginocchia, la povera vecchia marchesa si rincantuccia in un angolo della vettura chiusa e prega tuttavia. Prega per l'Elisa benchè non dubiti che sia in paradiso; e prega perchè Piero non s'inganni, perchè maturi una risoluzione che a lei pare quasi pazza. E pensa, pensa questa cosa incredibile, pensa che ne scriverà a don Giuseppe. La sua mente va mulinando disegni di avvenire per il genero, per il marito. Se lei morisse e Zaneto restasse solo! Lo colloca nella sua villa, colloca Piero nel quartierino ch'era disposto per l'Elisa, ordina la loro vita, fa e disfà combinazioni senza fine, ordisce, pure senza fine, sottili fila di complicati disegni che il vento notturno disperde, secondata dall'eguale monotono trotto dei cavalli, dalle scosse cadenzate delle sonagliere, che paiono battere anch'esse una via senza fine, senza fine. X Poco prima di quella stessa mezzanotte, Jeanne esce quasi furtivamente dal salotto di villa Cerri dove il maestro e una violinista fortissima suonano un turbinoso allegro che va, per le finestre aperte, ai boschi e ai prati della montagna. Esce nelle tenebre fredde, si appoggia alla sbarra che corona il bastione semicircolare sulla fronte della villa. Non sa perchè Piero sia partito; sa che non ha scritto poi, che non vorrebbe più amarlo e invece non può amare altro al mondo, non può pensare ad altro. Si china verso l'abisso profondo e piange. Sente ch'è finito, che quell'ultimo baleno di passione è passato invano, più nei sensi che nel cuore di lui. Si dice che forse potrebbe riconquistarlo simulando una conversione, ma che il morire le sarebbe possibile, il mentire no. Dalla nera valle ai suoi piedi risale con lo sguardo l'opposta montagna fino al cielo, trova una fascia di nebbione, l'aperto sereno e le stelle. Da fanciulla credeva in Dio. Sarebbe un dolce rifugio, adesso! Ma come credere in Dio? Come da esseri così mobili, così miseri, così effimeri può essere fondato un Assoluto così grande? Come può essere Dio altro che un desiderio di quello che a noi manca? E se veramente Dio esistesse anche solo come quell'assoluta giustizia di cui Maironi è diventato fanatico, non si dovrebbe vedere questa giustizia in tutto che non dipende, neppure in parte, dalla volontà umana, in tutto che dipende da lei sola? E invece dov'è? Perchè dovrebbe soffrir tanto, lei? Questo amore, se lo è forse dato? Il pezzo è finito ed ella si ricompone quanto può, rientra, chiede distrattamente: "Che musica è?" Suo fratello si scandolezza. Come non ha riconosciuto il primo allegro della Kreutzersonate? "Lo chiamano un allegro" soggiunse. "Io lo chiamo un impasto dei dolori di due anime, quella del piano e quella del violino, dolori che sono necessari per far nascere una cosa grande." "Mi pare" osserva timidamente la signora Cerri parlando a Jeanne "che qualche volta succeda così anche nella vita. Non ti pare?" Jeanne tace. CAPITOLO OTTAVO
SENZA TRACCIA I Da tre giorni la gracile spoglia dello spirito asceso alla Vita posava dentro il piccolo cimitero bianco fra le viti, gli ulivi e gli allori della terra gentile, poco sopra lo specchio del lago. La notte cadente era inquieta. Raffiche alternate a lunghi silenzi delle cose suonavano sul lago, per le rive, per gli oleandri e i rosai dell'orto Maironi, chini sulle onde; rombavano nel pino a ombrello sopra la panca dove Piero e don Giuseppe stavano a colloquio, curvavano le sottili aste nere dei cipressi allineati a monte dell'orto, lungo il muro di cinta. Il chiarore della luna traspariva per un latteo drappo di nuvole, teso dai profili morbidi della Galbiga e del Bisgnago alle rupi selvagge del picco di Cressogno e alla fronte uniforme del Boglia; e talvolta ne traspariva un momento la stessa velata immagine dell'astro, imbiancando la neve degli oleandri in fiore, fogliami e rose, la ghiaia del viale, l'alto fianco della chiesetta di Oria, il vecchio rustico campanile imminente all'orto. Era una notte inquieta nel cielo come sulla terra; e anche il colloquio sotto il pino era interrotto da silenzi pieni di aspettazione, agitato da repentini soffi dello Spirito, illuminato da qualche cosa di nascosto che ora traspariva ora si ritraeva. Don Giuseppe di tratto in tratto pareva accasciato sotto un gran peso, oscurato nell'anima; di tratto in tratto si trasfigurava, si rialzava tutto acceso la gran fronte, gli occhi, l'accento, il gesto. Il contegno di Piero era invece costantemente grave; il fuoco de' suoi occhi ardenti pareva più interno, le parole avevano un che di pacato e di fermo, affatto nuovo in lui. Sempre, quando tacevan le cose, don Giuseppe era il primo a rompere il silenzio in cui egli e Piero si accordavano quando esse rumoreggiavan più forte nel vento. E allora era quasi sempre una specie di soliloquio che gli usciva di bocca, un cruccioso ritorno del pensiero alle difficoltà di certo cómpito accettato irrevocabilmente, oramai. Cinque ore prima, mediante un atto rogato dal notaio di Porlezza, Piero gli aveva ceduto tutti i suoi beni; e la intelligenza fra loro era che don Giuseppe si sarebbe associate certe persone già designategli, le quali lo avrebbero aiutato a istituire una specie di Cooperativa di produzione agraria, capace di estendersi e aperta, entro certi limiti, ai volonterosi, nella quale la terra, considerata come uno strumento di produzione, finirebbe col diventare proprietà sociale e le norme statutarie avrebbero un carattere cristiano, cosicchè il fine cristiano dell'associazione compenetrerebbe in sè, dominandolo, il fine economico. Se l'esperimento non venisse approvato dai consiglieri di don Giuseppe o non riuscisse, la sostanza mobile e stabile verrebbe divisa in lotti, che si assegnerebbero prima in usufrutto e, dopo un certo periodo di prova, in proprietà, a famiglie scelte di contadini. Quest'ultima disposizione era stata suggerita da don Giuseppe che solamente così si era indotto ad accettare la cessione e l'incarico di un esperimento nel quale non aveva fiducia. Se Piero non lo aveva ben fatto persuaso della opportunità di creare un tipo di associazione aperta, dentro i limiti del possibile, dove il capitale sociale fosse essenzialmente la terra, lo aveva però fatto persuaso, col tranquillo vigore del ragionare e con la gravità del contegno, che l'intelletto suo era ben solido e fermo. Gliene aveva dimostrato l'acume sereno anche con lo scrupolo espressogli che questo suo disporre dei beni ceduti per date opere fosse un trattenerne indebitamente la proprietà ideale; ciò che in coscienza don Giuseppe non aveva potuto ammettere. "Mi perdoni" uscì a dire il vecchio prete "se ardisco farle una domanda indiscreta. Nella Sua visione, c'era questa idea?" Mai non si era accennato fra loro alla visione dopo il giorno doloroso e solenne. Nè don Giuseppe si era più avventurato a parlarne, nè Piero vi aveva alluso. "No" diss'egli "quest'idea è frutto di un lungo lavoro mentale e si è ora come rinvigorita in me di sentimento cristiano perchè io penso che realmente la confisca della terra a beneficio di pochi sia una cosa ingiusta e che se si formassero dei nuclei così ordinati sarebbero elementi di risanamento sociale. Ma per me si tratta solamente di dare il mio ai poveri non a caso, di darlo secondo un'idea di giustizia. Ho avuto in mente un mese fa di spogliarmi, senza sentimento religioso, per una giustizia particolare, come Le ho raccontato.

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Argomenti: vecchio prete,    cinque ore,    piccolo cimitero,    rustico campanile imminente,    campanile imminente

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