Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 10

Testo di pubblico dominio

fece un'impressione straordinaria e che mia moglie mi domandò e mi ridomandò se mi sentissi male. Adesso, don Giuseppe, viene qualche cosa di tanto penoso a dire! Mi pare una viltà di raccontare certe cose quando..." Piero non potè continuare, non potè reprimere un singhiozzo violento. "Ecco" ripigliò alfine, "dopo i primi giorni mi trovai disilluso, in certe cose, riguardo a mia moglie. Intanto, malgrado il suo affetto, aveva freddezze invincibili. Mi perdoni; a un padre devo pur dire tutto! Non mi pareva più enigmatica, mi pareva chiusa, sì, ma vuota. La portai in Valsolda per una visita ai miei morti, avrei voluto che pigliasse affetto al paese, alla casa che mi è tanto cara. Invece si mostrò gelida. Ne fui offeso amaramente. La malattia terribile incominciò con prostrazioni, terrori, presentimenti sinistri e accessi strazianti di affetto per me. Allora non Le so dire i miei rimorsi, mi sono disprezzato, odiato! Mi sono proposto di adorarla, se guariva, come una creatura del cielo. Non avrei voluto la casa di salute; cedetti perchè solo a quel patto i medici mi permettevano di sperare. Quel che ho sofferto Iddio lo sa, ma confidavo in lui, tanto! Dopo un anno vennero certe parole dubbie, scure dei medici, che prima mi avevano sempre confortato. La impressione fu terribile, ma poco a poco passò; qualche momento buono di tempo in tempo c'era e bastava per rialzarmi. Mia suocera, poveretta, aveva tanta fiducia! Nel primo tempo parlava sempre di sua figlia come se avesse a guarire l'indomani, poi non ne parlava più, ma io sapevo che faceva segretamente preparare in campagna un quartiere per lei. Si figuri che vi faceva collocare stufe perchè fosse pronto ad accoglierla in qualunque momento, che vi andava raccogliendo certi vecchi mobili stati cari all'Elisa da ragazza. Andai avanti così un altro paio d'anni con un'altalena continua d'illusioni e di disillusioni. Finalmente vi fu un primo momento in cui, pensando a mia moglie, mi tornò in mente qualche suo atto, qualche sua parola che mi aveva fatto cattiva impressione. Mi spaventai. Possibile che il mio dolore cominciasse a venir meno? Cacciai quei ricordi come tentazioni diaboliche. Ma tornavano. Reagii quanto potei, pregai e feci pregare più di prima, esagerai nelle dimostrazioni. Non so, per esempio disposi la camera da letto e il gabinetto di toeletta di mia moglie come s'ella vi fosse ancora, con tutti i suoi ninnoli, i profumi, sino all'accappatoio sulla poltroncina. Per un po' di tempo questo mi giovava, mi ravvivava le memorie; ma poi! Vedevo la tenerezza negli occhi de' miei suoceri, vedevo la pietà negli occhi dei miei conoscenti. Era una cosa terribile perchè non soffrivo più, non amavo più, mi sentivo, con orrore, un ipocrita. Non basta; prima non avrei guardato una donna in viso due volte, per la sua bellezza. Poi..." Il giovane si coperse gli occhi con le mani ripetendo che voleva dire tutto, tutto! Scopertosi il viso continuò: "Un giorno, proprio ritornando dal luogo dov'è mia moglie, m'incontrai nel treno con una signora giovine e bella che certo mi conosceva perchè mi avvidi subito che mi guardava con curiosità e interesse. Quella è la prima persona che ha sospettato il vero de' miei sentimenti perchè mi parve leggerle in viso, dopo averla guardata due o tre volte, una sorpresa, una specie di sorriso interno; capisce? Per molto tempo non mi potei levare quegli occhi dalla memoria. M'infervorai sempre più nelle pratiche ascetiche, pregai Dio che mi aiutasse e mi parve infatti di aver dimenticato." Tutto quest'ultimo racconto Maironi lo fece ansando, con voce rotta dallo sforzo di strapparsi dall'anima cose tanto compresse nell'interno di lei. Don Giuseppe lo ascoltava triste, senza guardarlo, con l'aria rassegnata di uno che non si meraviglia più, che sa di aver ad ascoltare la solita, eterna, uniforme storia. Piero proseguì: "Il fervore ascetico durò poco. Qui devo anche dire che non sotto il colpo della mia sventura ma più tardi, quando il dolore diminuiva, proprio quando mi davo più che mai alle pratiche religiose, cominciarono a venirmi dei pensieri strani, novissimi per me, dei dubbi circa la fede, fulminei, che mi scuotevano e che io cacciavo restandone tutto tremante. Una sera la cameriera di mia suocera, giovane, graziosa, venne da me con un pretesto. Mi contenni, il mio viso, le mie parole furono di ghiaccio ed ella se ne andò, ma vi ebbe poi un momento in cui mi domandai perchè se Dio voleva proprio un simile tormento delle sue creature non le aiutasse di più! Perchè mi facesse incontrare quella signora nel treno e quella ragazza in casa di mia suocera! Mi venivano impeti di ribellione, una domanda insistente, acre, mi martellava il cervello: e se Dio non ci fosse? E se Dio non ci fosse? Se tutta la mia fede fosse un tessuto di illusioni? Se io fossi uno schiavo di pregiudizi altrui, d'idee cacciatemi nella testa quando non potevo pensare? Se io fossi in fatto di religione una miserabile scimmia della gente che ho sempre veduto intorno a me? Oh, don Giuseppe, don Giuseppe, mi salvi Lei!" Il giovine gettò le braccia al collo del vecchio prete singhiozzando. Don Giuseppe corrispose all'abbraccio, sussurrò con dolcezza: "Sì, sì caro, io no ma il Signore La salverà. Sì, confidi, confidi!". Il servitore bussò e annunciò il caffè. Don Giuseppe credette bene di aprirgli. Maironi riprese l'impero di se stesso, e quando il domestico se ne fu andato continuò il suo racconto. "Proprio quella notte mi decisi di accettare l'ufficio di sindaco. Vi ripugnavo moltissimo, prima. Ogni volta che ho pensato, dopo la mia sventura, a occupare in qualche modo stabile la mia vita così vuota, a legarmi in qualche modo, mi arrestò sempre uno sgomento istintivo. Sempre mi veniva in mente di essere destinato da Dio a qualche cosa ch'Egli non mi rivelava ancora, sempre mi pareva di far male se pigliavo un'altra via. Quella notte pensai che fosse bene di costringermi a tanti pensieri nuovi, a tante preoccupazioni nuove, a lavorare assai, a occuparmi degli altri più che di me. Guardi, mi decido e poco dopo ecco un biglietto di quella signora incontrata in ferrovia, che mi domanda certe informazioni e mi fa capire, non proprio chiaramente, ma copertamente, che gradirebbe una mia visita. Ebbi come un'ondata di amarezza per questa tentazione che Iddio mi mandava appena compiuto un sacrificio grande per serbarmi fedele alla sua legge. Presi la penna e spedii sull'atto alla signora le informazioni richieste, togliendo ogni ragione di visita. Poi mi diedi tutto alla preparazione che mi era necessaria prima di assumere l'ufficio di sindaco. Mio Dio, don Giuseppe, è passato un anno e sto ancora tanto male; se c'è per me una via di salute, non è che questa: uscire dal mondo!" Il giovine tacque. Poi afferrò un braccio al prete, glielo strinse in uno spasimo di passione: "Don Giuseppe, don Giuseppe, pensi, pensi se proprio non è possibile! Un romitaggio libero non fa per me. Ho bisogno contro me stesso di un carcere, di quattro pareti sepolcrali, dure, fredde, mute, e in questo momento sono ancora pronto, andrei con gioia, domani non so! La supplico nel nome del mio povero papà, della mia povera mamma che Lei ricorda tanto. La scongiuro!" Fece l'atto, così dicendo, di buttarsi ginocchioni. Don Giuseppe lo abbracciò di slancio, lo trattenne. La gran fronte maestosa irradiava tenerezza e dolore, gli occhi erano velati, la voce gli moriva in un movimento muto, incomposto, del viso inferiore. "No" diss'egli a stento, dopo una lunga pausa, "la cella no, adesso la cella non farebbe per Lei." "Perchè? Perchè?" Il vecchio lo guardò un poco e sussurrò tristemente: "Perchè tutte le Sue tentazioni vi entrerebbero con Lei, perchè il mondo è ancora troppo radicato nel Suo cuore e credendo di fuggirlo Ella lo porterebbe con sè." "Ma forse Iddio mi aiuterebbe di più." Don Giuseppe sospirò come chi si duole di non essere creduto. "Di questo parleremo" diss'egli.

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Argomenti: vecchio prete,    fervore ascetico,    malattia terribile,    momento buono,    guardata due

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