Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 13

Testo di pubblico dominio

anche in esse vi è Gesù, ma vi è Gesù severo, Gesù triste, e niente fa dolere il cuore come lo sguardo severo e triste di Gesù. È un prezioso dono l'amarezza del Suo cuore, sa! Come vivrebbe in un tal tormento, come non si volgerebbe da Gesù severo a Gesù amoroso? È un prezioso dono e le Sue tentazioni, se proprio sono tanto più fiere delle comuni, dànno segno di cose grandi a cui è chiamato dal Signore. Le dico questo secondo la parola di un arcangelo, una delle parole più profonde che ci siano pervenute dal mondo angelico. Lei dice che le tentazioni di sensualità sono diminuite e che non comprende come il pericolo di legarsi a quella signora con l'anima La sgomenti più del pericolo di una caduta puramente sensuale. Il Suo terrore è giusto perchè la viltà stessa del peccato semplicemente sensuale prima è un ritegno e dopo genera quell'impulso di dolore e di sdegno che rialza rapidamente. Invece il legame creduto solo d'anima conduce, a poco a poco, quando c'è l'occasione, a certe familiarità che vanno diventando più e più sensuali e preparano una sovreccitazione del corpo che si unisce alla sovreccitazione dello spirito. Allora, in questo naturale accordo del corpo e dello spirito, il peccato pare meno vile, meno deformatore della natura umana e non genera odio e schifo dell'altra persona come nel primo caso, genera invece una più stretta unione nel male, unione superba e cieca, contenta di sè fino a che, per suo castigo, e spirito e corpo non si raffreddino. Ringrazi Dio che L'ammonisce del pericolo da Lei non veduto con un orrore da Lei non compreso. Non indugi, cessi di vedere quella signora e, senza timore dei suoi dubbi circa la Fede, si chiuda nelle braccia di Gesù. Poi, quanto a rimanere o partire, io non Le voglio più dare consigli. Io La vedo già fra quelle braccia, su quel petto, e sento che debbo solamente dirle, poichè sono qui un amico e non altro: interroghi Lui, ascolti Lui. Allora, quando dirà i Suoi desideri a Gesù, si ricordi anche, per l'ultima cosa, di questo vecchio prete tanto impedito ancora nello spirito da un miserabile corpo che decade sempre e non si dissolve mai. Ha inteso, caro?" Maironi non rispondeva, baciava l'abito dell'uomo santo, piangendo. E l'uomo santo chinò il viso, gli posò lievemente le labbra sui capelli, guardando pur sempre con occhi riverenti nell'alto, nell'Invisibile. Non pioveva più, blandi chiarori di sole mal nascosto nelle nuvole giallognole ravvivavano il giardino sonnolento, lucevano sulla umida gradinata della villa, dove don Giuseppe stava mostrando a Maironi con un sorriso triste la scena dei piani sfumanti di qua sino ai grandi coni azzurrognoli degli Euganei, di là sino alla sottile parete soleggiata dei Berici, e il giardino da lui pensato, disegnato, gittato sul rustico piano e sul colle selvaggio, abbellito via via, d'anno in anno, vagheggiato nel suo futuro fiore non per sè, ma per dilette anime partite dalla terra, contro l'antivedere umano, prima di lui. "Ecco" diss'egli accennando con una mano agli Euganei, "Praglia è là." Per venire da don Giuseppe, Maironi aveva detto in casa che si pigliava un giorno di riposo e che desiderava rivedere l'abbazia benedettina di Praglia. Adesso aveva poca voglia di andarci. Don Giuseppe lo incoraggiò. Era così magnificamente triste, l'antico monastero! Era così propizio, nella sua maestà cinta di solitudine, ai pensieri di cui Maironi aveva maggior bisogno! Il vecchio si animava tutto in viso parlando dei cortili eleganti e severi, della Crocifissione di Bartolomeo Montagna che stava nel refettorio e anche dell'indegno abbandono in cui l'insigne monumento era lasciato dal Governo, degli strazii maggiori che si temevano allora e che furono compiuti più tardi: assassinio vile di un vecchio glorioso, delitto consumato nel silenzio, col favore della solitudine. Maironi, distratto, lo ascoltava male. Pensava all'altra solitudine lontana della Valsolda. Proprio il giorno prima gli avevano scritto di là che il mandarino del giardinetto pensile era uscito malconcio assai dall'invernata dura, che l'antica passiflora della terrazza era morta, che occorrevano riparazioni al tetto della sala e alle palizzate delle fondamenta nel lago, e che si sperava in una prossima visita del padrone. Mentre don Giuseppe gli parlava del doloroso abbandono in cui giaceva Praglia, egli aveva in mente la casetta deserta dov'erano morti suo padre e sua madre e dov'egli non faceva che due apparizioni l'anno: il giorno dei morti e nel maggio per provvedere il giardinetto di fiori. Il prete sentì di non essere ascoltato e tacque. Poi, come cercando i pensieri dell'ospite in argomenti più vicini a lui, gli parlò di una visita che la marchesa Nene gli aveva fatta l'anno prima. "Desiderava una Messa per la Sua signora, qui nella cappella dove la Sua signora è stata da bambina e si è tanto divertita a tirare i mantici dell'organo. Mi chiese pure certi aranci dell'arancera, molto acerbi, per verità, ma che insomma la Sua signora aveva gustati quella volta e che aveva ricordati poi spesso. E desiderò, poveretta, che io unissi agli aranci una parola mia." Qui don Giuseppe ebbe un sorriso di commiserazione triste, come per dire: si figuri cosa può valere una parola mia! "Adesso gliela mando con gli aranci" disse. "Mi ha veramente ispirato riverenza, povera marchesa. Lei sa che di solito esprime poco i propri sentimenti, non dice mai cose accentuate. Bene, qui, proprio qui dove siamo adesso, ricordo queste sue parole dette senza lagrime, sa, senza troppa commozione: «Don Giuseppe, dica al Signore che non ne posso più»." Era infatti, a pensare la maschera di calma che sempre la vecchia signora portava davanti ai suoi e al mondo, una parola tragica. Maironi, quantunque avesse più volte intravvedute le profondità segrete di quell'anima, ne fu colpito come da un rimprovero, sentì la inferiorità morale della propria natura obliosa, piena di concupiscenze. Gli balenò insieme il dubbio di una impotenza della volontà contro questa disposizione fatale, imperante, dell'essere suo, il cuore gli si sollevò in un amaro "perchè" e subito si raumiliò per la riverenza dell'alto spirito vicino. "Don Giuseppe" diss'egli quando il domestico lo ebbe avvertito che la carrozzella era pronta, "crede proprio che il Signore vorrà aiutarmi?" "Ma sì, purchè non ne dubiti." Sul sedile della carrozzella era stato posato un panierino di aranci. Maironi si volse a don Giuseppe. "Son di quelli che Lei sa" disse don Giuseppe umilmente, come scusandosi. Il giovane gli strinse forte le mani e non potè proferir parola. Potè appena, quando la carrozzella partì, levarsi il cappello, rispondere così al saluto, pur silenzioso e commosso, del vecchio prete. II La carrozzella seguì l'unghia, in principio, di umili collinette, passò un villaggio, un fiume, altri villaggi, corse una tortuosa stradicciuola vagabonda nel piano sino agli avamposti degli Euganei, piegò per il viale maestoso di platani che ne rade a settentrione il fianco deserto. Dove questo svolta a guardar il levante e si allontana verso mezzodì, si parte dalla via maestra e lo segue uno stradone che mette capo dopo cinque minuti alla fosca cintura del grande monastero abbandonato, alla torre merlata, al bel tempio possente del Quattrocento, assiso sur un enorme dado di pietre nere, onde irrompe qua e là, congiurata con le ribellioni del pensiero, la ribellione dell'erba viva. Maironi fece l'intero viaggio senza guardar mai nè a destra nè a sinistra, assorto nel suo dramma interno, nelle visioni di villa Diedo, nel fantasma della Valsolda. Anche lo molestavano di tempo in tempo i richiami di tanti affari pubblici gravi, urgenti, che aveva per le mani, benchè non volesse dar loro ascolto. In fondo il colloquio con don Giuseppe gli aveva lasciato nell'anima gratitudine, riverenza nuova, tenerezza intensa per il santo vecchio e con questo una mistura di delusione, non avvertita in principio,

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Argomenti: vecchio prete,    prezioso dono,    sguardo severo,    grande monastero,    viale maestoso

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