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Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 48legato ai Dessalle, aveva deciso di sacrificarsi e di cedergli una larga parte dei propri beni, però a condizione di far sapere in alto che non si aspirava più al senato, di trasferirsi a Brescia, di viverci quietamente con il genero. Don Flores era l'ambasciatore. "Ma Zaneto duro; e fra lu e el sorze i ga mandà a monte tuto." Nel dialetto del paese "sorze" si dice un uomo astuto e a questo fondamento filologico il cavalier faceto appoggiò la rispettabile ipotesi che gridando "un sorze!" il buon Zaneto avesse voluto designare non un topo ma se stesso. Intanto Jeanne aveva presentato il marchese a donna Laura, li aveva avviati entrambi, senza parere, alla terrazza di ponente dove potevano discorrere in pace. All'orologio del Santuario suonavano le dieci e mezzo. Jeanne scivolò nella sala da pranzo, si affacciò a una finestra aperta sulla valle del Silenzio, guardando i colli foschi, le nere nuvole pesanti, immaginando la terrazza lontana, alta sopra le acque oscure, la passiflora morta, il suono delle grandi campane, il cuore a lei caro, pieno di memorie, di rimpianti, di terrori, di desideri indistinti che lo contendevano a lei. Si slanciò mentalmente colà dov'egli era e sentendo che non avrebbe osato serrarlo nelle sue braccia per timore di riuscirgli sgradita, tutta dentro si rammollì di pianto e lasciò la finestra. Nel voltarsi vide Bassanelli fermo davanti a lei. "Sono indiscreto?" diss'egli. "Ho pensato che forse questa sera avrete tempo e orecchi anche per gli amici. Vorrei dirvi una parola." Jeanne non si sdegnò dell'allusione all'assenza di Maironi, avvezza com'era da un pezzo alle punture gelose del povero Bassanelli, per il quale aveva molta stima e anche simpatia. "E la mia società?" diss'ella. "Ci pensa Bragozzo" rispose Bassanelli. "Sentite; ieri l'altro, a Venezia, ho veduto vostro marito." Jeanne ebbe un sussulto di appassionato disprezzo. "Ebbene!" diss'ella. "Che me ne importa?" Bassanelli non pretendeva che le ne importasse molto, ma in fin dei conti l'uomo gli aveva fatto pietà. Era in pessime condizioni di salute, pareva mutato, conscio delle sue abbiezioni passate, soffriva, soffriva molto, anche di certe voci arrivate sino a lui. "Di quali voci?" "Eh, mia cara!" "Bassanelli! Siete venuto per dirmi questo?" fece Jeanne, fieramente. "No, ma insomma trovo che stasera vi si legge troppo nel viso l'assenza di qualcuno, e trovo che non è necessario di mettersi poi anche a sospirare alla finestra!" "Bassanelli, vi ho permesso finora di maltrattarmi circa questo punto perchè siete un vecchio amico, ma badate di non farmi pentire! Del resto, non è vero che si legga. Non si legge niente. E poi, quando anche si leggesse? Io non faccio il male!" Bassanelli la fissò negli occhi, pallido, in silenzio, l'afferrò bruscamente al polso, le alzò il braccio. "Non fate il male?" diss'egli. "Sentite! Sono sempre stato un asino da quando ho sofferto la fame e mi sono fatto storpiare per questa maledetta Italia. Sono un asino anche in questo momento e il perchè lo so io; ma vi giuro che quando penso al povero Franco Maironi, al padre, un cuor di leone, puro, per D..., come il cuor d'un santo, e mi figuro quel che soffrirebbe se vedesse, se sapesse, preferisco esser io che voi!" Così dicendo liberò e scosse da sè il polso prigioniero. Nello stesso momento si udì un sonoro applauso salutar l'ultima battuta dell'opera di Bragozzo. "Zitto!" disse Jeanne, quasi atterrita, pallida quanto lui. "Voi siete un cattivo geloso e niente altro!" Ella corse nella sala d'Ifigenia; e Bassanelli la seguì fremente, mezzo contento, mezzo malcontento di essersi sfogato. Donna Laura e il marchese Scremin conversavano ancora sulla terrazza di ponente quando tutta la società si rovesciò a coppie sulla terrazza di levante, scese la gradinata, si avviò per il giardino alla porta lucente della Foresteria. Alcune coppie aristocratiche si sbandarono per aggrupparsi poi fra loro secondo un'intesa, desiderando pigliar posto nella sala a parte dagli altri. Subito ne corse per le ombre qualche femminino dispettoso sussurro. Sussurri correvano pure nel gruppo eletto; sussurri sull'assenza di Maironi, sussurri sulle toilettes delle due gran dame forestiere, che parevano insolentemente semplici. Una signora che aveva trovato modo, stando seduta presso un uscio della sala di musica, di farsi vento con la destra e di saggiare occultamente, con la sinistra, la stoffa delle toilettes che passavano, era fuori di sè contro certe sue amiche avare. Un'altra signora si compiacque di osservare alle due fanatiche adoratrici di Jeanne, perchè non si illudessero circa gli affetti di lei, che l'assenza di Maironi la rendeva persino brutta. Jeanne entrò l'ultima nella sala della conferenza con il professore Dane, che un bello spirito indigeno aveva già battezzato, per i calzoni laici e per certa femminilità del vecchio viso imberbe, pretoides brachyfera. Quando essi entravano, Carlino, addossato al quadrato bianco delle proiezioni, stava spiegando al pubblico che il suo discorso, di soggetto fantastico, richiedeva una introduzione musicale. Pregò di non applaudire la musica quantunque di un grande maestro e ben eseguita. Le lampade elettriche mancarono a un punto, sul quadrato bianco apparvero nuvole notturne soffuse di albori lunari e un'orchestrina invisibile attaccò le prime battute del Sogno di una notte d'estate di Mendelssohn. Donna Bice, la buona signora Colomba Raselli, la Gonnellina, suo padre, Dane, Bessanesi, il maestro Bragozzo fecero: "Oh!". Destemps disse forte: "Bene!". Tutti gli altri, signore e signori, stettero duri, con l'aria di gente avvezza e difficile. La Raselli si attentò di domandar sottovoce a una maestosa vicina impassibile: "Cossa xeli, contessa, quei spegazzi?". La vicina rispose maestosamente: "Mi no so." Una vispa signorina seduta presso la Raselli mormorò: "El sarà el caldiero de le strie che fuma." "Almanco" pensò la Raselli "che le strie me trovasse el me fiocheto". Appena finita la musica, le nuvole notturne tremolarono e sparvero, le lampade elettriche mandarono una fioca luce crepuscolare e Carlino salì sopra una piccola tribuna che tagliava l'angolo della sala fra il quadrato delle proiezioni e l'uscio aperto della stanza battezzata da lui per le decorazioni tiepolesche La Cina dei mostri, dove stavano i musicisti. "La baraca de Purincinèla" mormorò l'uomo acido. "Porta dei sogni" incominciò Carlino, senza enfasi, con quel nervoso accento toscano che agli orecchi veneti suonava già singolare e magico. "Porta delle Sfingi, janua clara! Apparisci!" Le lampade si spensero, tremò sul quadrato luminoso e vi si fermò la immagine di una elegantissima porta fine Quattrocento. La base del pilastro destro recava sul plinto: JANUA CLARA. Qualcuno riconobbe il motto e le sfingi dell'architrave, mormorò il nome di un palazzo della città. "Degna" continuò Carlino "del palagio di Atlante, io ti scelgo per esordio. Sanguigne, informi, dall'utero di un'alpe selvaggia cavò le tue membra il nerbo di braccia violente; e l'anima tua pura balenava intanto nell'anima dell'antico artefice come favilla in fiamma e nel faticoso congiungimento dello spirito con la pietra lento ascese e declinò l'arco tuo, simile al corso di una vita florida e piena, alla via della bellezza nel tempo, della speranza in un cuor sapiente." "Vardè l'orologio" mormorò l'uomo acido al suo vicino "ca vedemo quanto che se ghe mete a passar sta porta." "Come ora" proseguì nell'ombra la voce di Carlino "nel dì sacro al Tonante, tu cingi di un pago sorriso le turbe che per te affluiscono, recando incensi, all'interna Dea..." Qui la porta tremò e disparve. Scattò al suo posto, fra gli oh, le risa e gli applausi, il busto splendido di una dama presente, dal profilo imperatorio, dal grande occhio nero, dall'omero potente e squisito. "Somiglia un poco a donna Laura" disse il professore Dane. Jeanne trasalì. Donna Laura e il marchese Scremin erano in sala? 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