Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 36

Testo di pubblico dominio

rifiutare. Accettò e ricominciò ad abbrancarsi la fronte con le cinque dita spiegate della destra, premendole forte e lentamente raccogliendole in un cuneo per dispiegarle e raccoglierle ancora, come uno che si trova invischiato in calcoli astrusi e non ci si raccapezza. Durante questo suo faticoso meditare la marchesa uscì molto impensatamente a dirgli che aveva bisogno di un altro favore, da lui; ed egli alzò il viso con una ingenua espressione di sbalordimento come se dicesse: un altro? Le par poco quello che ho già sullo stomaco? La marchesa non parve avvedersene, e gli parlò imperterrita dell'altissima stima in che Piero teneva il Commendatore, per le relazioni avute con esso durante il sindacato. Se il Commendatore volesse, potrebbe forse esercitare su Piero una influenza buona. Bisognerebbe raccomandarglielo, far sì che egli procacciasse di vederlo spesso, di legarselo quanto fosse possibile. Si sapeva che il Commendatore professava il più riverente ossequio a don Giuseppe; chi prendere per quest'ufficio meglio di don Giuseppe? Qui non c'erano difficoltà e don Giuseppe non ebbe a ridire che sul riverente ossequio. Per verità non disse parola, fece solamente un atto di compassione per il triste inganno sul conto suo in che viveva quel bravo signore. Intanto venne il solito domestico rurale con il solito caffè e la cauta signora tirò subito in campo, rifacendosi un viso placido, le oche del laghetto. Bisognava poi vederle da vicino, quelle oche, prima di partire! Nell'alzarsi insieme a don Giuseppe, nel disporsi a una passeggiata in giardino, la marchesa pregò il domestico rurale di avvertire Giacomo e stimò di aver così trasmesso a Giacomo l'ordine di attaccare. "Giacomo?" disse fra sè il rurale. "Sarà il cocchiere. Avvertirlo di che? Ci penserà lui." E se ne andò con la intenzione lodevole di riferirgli tal quale il messaggio della sua padrona. Ma Giacomo non era il cocchiere che aveva condotto la marchesa Nene a villa Flores, era il nome di un defunto cocchiere antico di casa Scremin, l'emblematico nome col quale la marchesa chiamava imperturbata, nove volte su dieci, piacesse o non piacesse loro, i Beppi, i Toni, i Tita venuti poi, il Checco attuale. Limpidi ricami di note intorno al mover pacato di una melodia tranquilla, nè lieta nè triste, avrebbero potenza di esprimere quell'inafferrabile interno che sfugge al poeta nel dire l'andar lento di don Giuseppe e della marchesa per l'erbe tutte vive di vento nell'ombra chiara delle nuvole argentee, fra le macchie tutte bisbigli di frondi, rotti dalle note insistenti e gravi, dalle volate acute degli usignoli. I due non scambiavano, quasi, parola; e appunto la sola musica potrebbe dire il loro silenzio pieno di senso, le comunicazioni non inconscie delle loro anime, comunicazioni di pietà vicendevole, pensando la marchesa come il vecchio prete, con soave poesia di speranze, avesse preparato ai suoi cari, discesi poi nel sepolcro, tanta bellezza di cose; pensando don Giuseppe quanta bontà fosse nella donna addolorata e stanca che per essergli cortese mostrava interesse al suo giardino; blanditi l'una e l'altro, in pari tempo, nel cuore, da un'ultima dolcezza terrena, da un gentile compiacimento della bellezza, non ancora fatto straniero alle loro anime afflitte. Perchè la marchesa nel suo complicato cervello ci aveva pure una cellula per il senso della bellezza dei fiori, degli alberi e dei giardini; alla quale cellula mettevano capo molti finissimi nervi del pensiero, un solo grosso paralitico nervo della parola. "Ecco le oche" diss'ella con la sua serenità blanda nell'appressarsi al microbo giallognolo e inquieto che si pigliava con beata vanagloria il nome di lago. "Ecco le oche. Le xe arene." Don Giuseppe le spiegò pazientemente che le oche non erano anitre, che i suoi palmipedi erano un duplice popolo. In quel momento un languido raggio di sole avvivò la scena pastorale, le acque inquiete, il gruppo di pioppi tremoli che le fiancheggia, il verde ovale della prateria cui l'obliquo poggio boscoso e una diga di alta verzura corrono a chiudere insieme in uno sfondo nero di abeti. Quel tale grosso nervo paralitico della marchesa si contrasse un poco. "Belo" diss'ella "don Giuseppe, el cossa xelo, el prà." Don Giuseppe non rispose. Contemplava. Quel posto del giardino era il suo prediletto. Aveva sognato un tempo giuochi e risa, nella prateria, di bambini del suo sangue, nipoti e pronipoti. Adesso, ammirando con la sua perenne freschezza di spirito i capricciosi amori della luce e del verde, ripensava il proprio testamento, fatto da pochi mesi, dopo lunghe incertezze e meditazioni, la villa e il podere diventati residenza e ricchezza di sei vecchi parroci della diocesi e di sei vecchi medici condotti della provincia, impotenti e bisognosi; immaginava i suoi eredi squallidi a passeggio nel prato. La marchesa soggiunse che per l'Elisa, se mai avesse a uscire di là, ci sarebbe voluto un soggiorno simile. Don Giuseppe s'infiammò subito, offerse villa e giardino con tanto fuoco che la marchesa, sorridendo fra le lagrime, gli prese un braccio al polso, glielo tenne stretto a lungo in silenzio, per fargli capire che lo ringraziava e insieme che non c'era da correr tanto con le speranze. Don Giuseppe, turbato del turbamento di lei, s'imbarazzò, non sapeva che dire. Ella era forte, tanto forte che molti la credevano poco sensibile, ma ora che aveva aperto il cuore a don Giuseppe come a nessuno mai, la sua forza, fatta in gran parte di silenzio, era venuta meno. Vide a due passi, fra i pioppi, alcuni sedili. "S'el permete" diss'ella con voce soffocata "qua xe belo." E sedette. Don Giuseppe le sedette accanto e il suo smarrimento, la sua inquietudine, il suo timore di peggio dovettero apparir tanto che la marchesa gli disse con uno sforzo: "Gnente, salo, don Giuseppe". Poco a poco la innocente pace del verde e delle acque solitarie, i sussurri miti degli alberi chetarono l'afflitta come in una casa ov'entrò la sventura, inconscia festività di bambini talvolta cheta, poco a poco, un amaro pianto. "Ecco" diss'ella, asciugandosi gli occhi con il fazzoletto. "Figurarme!" Voleva dire che s'era commossa nell'immaginar l'Elisa in quel giardino. Don Giuseppe non capì e non cercò di capire. La pregò, un po' a caso, ad aver cura della propria salute. "Ghe n'ò tanta!" gli rispose: e soggiunse con insolita energia che non voleva morire, proprio no. Oh povera grama creatura, sarebbe stata beata di riposare nella morte, poichè credeva in Dio! Ma se la sua cara uscisse? Chi la proteggerebbe, chi la difenderebbe contro colei? Che saprebbe fare Zaneto? Non c'era che la sua mamma per assisterla, e la sua mamma doveva, voleva vivere. Più tardi il contadino di don Giuseppe interrogato dalla marchesa se avesse avvertito Giacomo, balbettò parole incomprensibili; e invitato dal suo padrone a spiegarsi meglio, invece di rispondere alla marchesa rispose a lui, sottovoce, con una faccia sbalordita: "Signor, el ga dito ch'el xe morto". Infatti il cocchiere impertinente, uditosi chiamare "Ohe, Giacomo!" aveva gridato: "El xe morto!". La marchesa capì, sorrise con serena commiserazione, scotendo il capo, del bello spirito suo cocchiere. Prima di salire in carrozza ella raccomandò alle preghiere di don Giuseppe la sua figliuola. "El me creda, don Giuseppe, Piero no la ga mai conossuda." Solamente lei la conosceva, solamente lei sapeva i tesori di quell'anima. Rimasto solo, il vecchio prete ricordò che un amico suo, poeta, parlando un giorno con lui della marchesa Nene, l'aveva rassomigliata a un cartoccino di gemme come ne tengono i gioiellieri, a un gruppetto di sassolini preziosi, chiusi in un pezzo di vecchio quaderno da scuola strappato a caso, rabescato di storti caratteri puerili senza senso; e anche a un ordine mirabile di cavità sotterranee disposte per qualche occulto lavoro sapiente e benefico sotto il disordine di vecchie culture mezzo abbandonate. Ma, dileguato appena il rumore

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Argomenti: vecchio prete,    bello spirito,    tanto fuoco,    silenzio pieno,    riverente ossequio

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