Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 31

Testo di pubblico dominio

pieno il capo di sonno, di stupore e di tedio, il cuore intorpidito. Anche la passione vincitrice taceva in lui, come spossata. Non sentiva che uggia di sè, del luogo sacro, di doverci stare a forza. Gli davan fastidio le occhiate bieche dell'uomo acido, le facce compunte dei devoti stupidamente prostrati, come a lui pareva, ciascuno davanti a un piccolo specchio, guardandovi un piccolo Iddio della propria mente. Gli dava fastidio l'idea che quelle vecchiette e la signora Soldini e il Commendatore facessero in cuor loro, secondo era probabile, commenti alla sua presenza nella chiesa. Persino il devoto pregare della suocera gli pareva un eccessivo sdilinquimento. Mentre s'inacerbiva così contro tutto e contro tutti, cedendo a un soffio demoniaco di perversità, entrò nella cappella, a passo lento, preceduto dal chierico, il celebrante. Piero riconobbe don Giuseppe Flores. A questo incontro non si attendeva e ne fu seccato. Avrebbe preferito un pretoccolo antipatico. Non gli era possibile di riversare anche su don Giuseppe il fastidio, il disprezzo di cui era tutto amaro; e guardare quel viso con desiderio di luce e di pace come l'aveva guardato un giorno là nella villa solitaria, non voleva, non poteva più. Nemmanco poteva, però, chiuder gli orecchi alla voce grave e dolce che gli riconduceva le memorie della solitudine pastorale intorno alla villa silenziosa, dello stanzino, del colloquio sul canapè rosso, delle parole sante, delle sante labbra posateglisi un momento sui capelli. Se durante le tentazioni antiche la sua volontà si annientava per non consentirvi nè perderne la dolcezza, adesso gli avveniva di non poter cacciare da sè, per una simile paralisi della volontà, quelle imperiose memorie moleste. Non poteva non aderire col senso alla voce dolce e grave, non poteva non aderire colla mente alla visione di don Giuseppe seduto accanto a lui sul canapè rosso, pieno la gran fronte, gli occhi accesi e calda la parola di Spirito Santo. Così, udendo la voce del celebrante, contemplando le immagini della propria mente, incominciò a sentirsi in fondo alla gola e più giù verso il cuore un dolor sordo simile al dolore che sotto una pressione fissa lentamente si genera, dilata e profonda. Era un dolore anche muto, non diceva la propria origine, la propria natura, si dilatava e si sprofondava, era tormento, e anche spossatezza amara, impazienza della Forza fissa e premente. Quando il celebrante incominciò la lettura del Vangelo, Piero, avvinto al suono e non al senso delle parole, sentì un mutamento del suono. Nel dir le parole di Gesù, il celebrante si congiungeva in ispirito a Gesù con amore e tremore. Il sentimento del suo alto ministero, il sentimento della sua indegnità, il soverchiar del divino, nel suo petto, sulle forze umane; tutto diceva quella voce, non colorita nell'esterno ma penetrata d'anima e quasi ansante. Piero non potè a meno di volgere il capo a guardar la solennità umile del noto viso antico, sentì che il suo malessere interno si trasformava in un cupo ribollimento, in una commozione violenta, n'ebbe terrore, s'irrigidì contro se stesso con tutto il nerbo della ridesta volontà, si rifece dentro il silenzio. E per non ricadere pensò a Jeanne, pensò che forse in quel momento ella usciva dal letto, riuscì ad accendersi la mente di un fuoco piuttosto lascivo che amoroso, quale non lo aveva bruciato ancora stando egli con Jeanne o pensando a lei; quale un esperto medico di anime avrebbe giudicato indizio di passione declinante. In quella cupida fiamma il tedio, il malessere e insieme anche le immagini suscitate dalla voce di don Giuseppe, tutti i germi vitali dell'anima, subito arsero. Uscirono di chiesa in un gruppo, la Scremin tutta sorridente e pacifica, Maironi accigliato, la vivace signora Soldini pronta nel viso a parole che già le sfuggivano dagli occhi, il Commendatore modesto e mansueto. Quest'ultimo, riverite ossequiosamente le signore, disse a Maironi con un sorriso tra benevolo e scherzoso, con un'artificiosa peritanza nel metter fuori la facezia come se fosse arrischiata molto: "Adesso che Lei è in disponibilità... in disponibilità... si lasci vedere, si ricordi degli umili e dei derelitti. Ho a dirle qualche cosa ma con tutto il Suo comodo. Oggi vado a Roma. Ritorno lunedì, non della settimana ventura, della successiva; lunedì fra le quattro e le quattro e mezzo, se crede, mi trova certo." La marchesa e il genero si allontanarono subito. La Soldini, infocandosi a un tratto di commozione, domandò al Commendatore se avesse notato il pallore cadaverico di Maironi. E la marchesa, invece, che aria serena! Era un vero enigma, quella marchesa! Gli amici di casa Scremin dicevano "virtù". Santo cielo, una virtù troppo simile al gelo! Siccome al Commendatore, il quale non aveva poi notato nè pallori, nè arie serene, questo non necessario giudicar veemente di sentimenti altrui non pareva andar troppo a genio, e non gli uscivano di bocca che monosillabi stentati, così la signora mutò discorso e gli disse ridendo che le rimordeva di esser venuta in Duomo quasi più per incontrar lui che per udirvi la messa. Suo marito desiderava di parlargli e gli faceva chiedere quando avrebbe potuto riceverlo. Il Commendatore rispose, forse non tanto cordialmente: "Con piacere, con piacere". Si fermò sui due piedi, aggrottò le ciglia per un soliloquio in parte mentale, in parte espresso, per un calcolo di giorni, di ore, di sedute, di convegni, di elementi certi, di elementi probabili, di elementi possibili, dal quale ricavò, dopo qualche tentennamento, che avrebbe ricevuto il signor Soldini alle tre e tre quarti dello stesso lunedì indicato a Maironi, ossia venticinque minuti dopo il suo arrivo da Roma. Detto ciò, fece un inchino umile, piantò in asso la signora che non se l'aspettava e ne rimase un po' male. L'uomo acido il quale aveva gironzato al largo non senza rabbiosi moti di sopracciglia e di mandibole, gli si fece subito incontro. "Son qua" gli disse il Commendatore. Ma intanto qualcuno gli sbucò alle spalle dall'imboscata di un chiassuolo, gemendo: "Comendatore, me racomando! Son Bisata, Comendatore; quelo che sona el pelittone in mi. Sperava tanto in tel sindaco Maironi, per la banda. Adesso i dise che lo farà sindaco i liberali. Me racomando una So paroleta, Comendatore!". L'uomo acido gli intimò così bruscamente di levarsi loro dai piedi che il buon Commendatore, tutto turbato al veder Bisata volgersi fosco verso l'interruttore, gli cacciò in mano dei soldi e lo congedò più benignamente che potè: "Va là, caro, va là". Ma ecco un'accattona flebile. "Lo go spetà tuta la messa, benedeto! S'el gavesse delle scarpe vecie!" Nuove escandescenze dell'uomo acido: "A sì una dona e ghe dimandè le scarpe a lu?". Nuovi allarmi, nuovi soldi e miti consigli dell'ottimo Commendatore. "Va là, cara, va là!" Finalmente l'uomo acido potè avere il suo colloquio promessogli in chiesa, nell'uscire dalla cappella. Era un accattone anche lui, chiedeva una rivendita di sale e tabacchi per certa sua parente a corto di quattrini. E chiedeva per sè aiuto in una questione col Ricevitore del Registro. "La lo fazza far cavalier quel fiol d'un can! Chi sa ch'el deventa più molesin!" Il Commendatore ascoltò tutto con santissima pazienza, chiese notizie, diede consigli, riprese sorridendo le escandescenze, scusò il R. Ufficio del Registro e venne finalmente a un quia che certo gli premeva. Domandò in tono scherzoso a che punto fosse la crisi municipale. Che stava per succedere dopo le dimissioni del sindaco? L'uomo acido si meravigliò delle domande. Non aveva il Commendatore udito le rivelazioni strepitose dell'illustrissimo sior Bisata? "Ah ta ta ta!" fece il Commendatore come un altro marchese Zaneto. "Mi dica Lei, sul serio!" Qui l'uomo acido, fiutato un pericolo nello scandagliare del Commendatore e visto il marchese Scremin mover loro incontro, come evocato da quel "ta ta ta", con una faccia pregna

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Argomenti: voce dolce,    pallore cadaverico,    soffio demoniaco,    solitudine pastorale,    simile paralisi

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