Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 35

Testo di pubblico dominio

per soverchia bontà "perchè lu carità, perchè lu tegner afituali che no paga, lu questo e lu quelo." Guai se non avesse messo lei un po' di freno a tante larghezze! Adesso veniva il peggio. Un galantuomo innominato, "un berechin, ghe digo mi", aveva soffiato nell'orecchio di Zaneto che non lo si creava "cossa xelo", ossia senatore, per la cattiva riputazione delle sue finanze e ch'egli per esser sicuro della nomina, dovrebbe regalare "mi no so quanto a mi no so chi", ai cronici, o agli orfani, o ai derelitti, o ai tignosi, "a quelo che ghe comoderà a lu, mi digo." Figurarsi! Sì, don Giuseppe si rammaricava di questi guai ma non vedeva quale rimedio ci potesse recar egli, con qual veste si sarebbe presentato al marchese per sciorinargli un sermone. "Ma Lei, marchesa?" diss'egli. "Come potrei riuscire io a smuoverlo se non ci riesce Lei?" La marchesa scosse il capo, sospirò, confessò la propria impotenza. "Mi no, sala, don Giuseppe. Bonissimo, ma no se intendemo." Infatti se la eloquenza della povera vecchia signora era scarsa e grossa, quella di suo marito era invece delle più sottili e pronte. Ella vedeva in ogni questione le diritte ragioni della semplice giustizia, egli ci vedeva le ragioni contorte di una giustizia che facesse alle braccia con l'opportunità. Ella pigliava i propri argomenti in un'angusta cerchia di notizie e d'idee, egli nel campo maggiore della sua cultura e della sua retorica. Per lei il seggio di senatore significava soltanto vanità e spese. Il suo più filosofico argomento contro le ambizioni del marito somigliava molto, per un curioso incontro, nel suo scetticismo pratico, all'argomento col quale Jeanne, nel suo scetticismo teorico, aveva quasi deriso le nascenti idee socialiste dell'amico: per la presenza di Zaneto nel palazzo Madama e in fondo neppure per le chiacchiere degli altri, la menoma fra le incamminate cose del mondo non avrebbe certo mutato strada! Invano il buon Zaneto, non osando rispondere ch'egli era dispostissimo a rispettare del tutto i prefissi itinerari delle cose del mondo, si metteva a distinguere l'ambizione legittima, sentimento doveroso, dalle ambizioni riprovevoli; invano le parlava di servigi alla religione, possibili a rendere anche col semplice voto. Nel dir questo egli si credeva sincero e arrivó sino a dimostrarlo alla incredula sposa che batteva e ribatteva il chiodo dell'ambizione e della vanità. Le spiegò ch'egli era della stessa pasta di tutti gli altri uomini e non si credeva immune da certi stimoli non tanto nobili; ma che siccome sopra gli stimoli forse nascosti gli appariva nella coscienza una bellezza di buone ragioni, egli non aveva obbligo d'investigar se stesso più a fondo perchè anche a se stesso l'uomo deve usare carità, anche in se stesso deve astenersi dalle investigazioni che sarebbe odioso di praticare in altrui. Sua moglie, intontita e sdegnosa, respinse da sè tutta questa psicologia e questa casistica, come incomprensibili logogrifi. Ell'aveva dunque rinunciato a tentare direttamente la conversione di Zaneto e lo ripetè a don Giuseppe, il quale fece e rifece, sospirando, l'atto di alzar con le spalle e con il capo un gran peso. "Come faccio?" diss'egli. Senza tener conto de' suoi gesti nè della sua parola, la impavida vecchia signora, come se fosse bell'e inteso che don Giuseppe sarebbe l'ambasciatore, s'incamminò a metter fuori un'ambasciata nuova, che quegli era ben lontano dall'immaginare. Annaspò un bel pezzo intorno ai suoi beni extradotali che aveva gelosamente e quasi avaramente amministrati a parte per amore della figliuola, perchè non andassero, come ella disse a don Giuseppe, "nel caldieron", nel caldaione Scremin tutto screpolato di debiti. Era una sostanza ragguardevole e finora la brava marchesa non aveva mai voluto aiutare a saldar il caldaione nè con un soldo nè con una firma. "Ma se occorre, don Giuseppe" diss'ella, "vada." Ecco, l'intimo pensiero della marchesa Nene, il pensiero taciuto fino all'ultimo, cagione vera, unica, della sua visita, era finalmente giunto per le vie più strane e distorte sul suo labbro, n'era uscito quasi a caso, quasi come un'idea che le fosse germinata allora allora nel cervello. Ella lo aveva concepito da lungo tempo e condotto silenziosamente a maturità nell'attesa di metterlo alla luce quando ne venisse il destro. Il pensiero era questo: offrire a Zaneto il versamento della propria sostanza nel famoso "caldieron" del quale un abile amministratore avrebbe poi tenuto il mestolo, a patto di vendere tutta la sostanza stabile Scremin, palazzo e fondi, e di trasferirsi a Brescia. Aveva in pari tempo intrapreso indagini occulte sul reale stato degli affari di suo marito, sul valore commerciale dei beni stabili di lui e dei propri. Udito che il Genio Civile stava cercando una residenza più comoda, si era arrischiata a muovere una pedina in Prefettura per saggiare cautamente il terreno con la mira di offrire, quando ne fosse il caso, il palazzo Scremin. Aveva persino portato a Venezia i propri brillanti per farli stimare. Dal medico che le aveva recato la parola preziosa, si era fatto scrivere una specie di monito ufficiale che se l'Elisa uscisse guarita converrebbe collocarla in un soggiorno affatto nuovo per essa. Quando le fu riferito che certo amministratore di un Istituto pio, persona intima di Zaneto, lavorava per indurlo a una munificenza, si spaventò, stimò giunto il momento di agire e parlò a Zaneto. Zaneto si commosse, pianse di gratitudine, abbracciò sua moglie e le disse in tono patetico, chiamandola "vecia mia", il suo affetto, non tanto alla casa e alle terre de' suoi avi quanto alla città nativa. Se Iddio concedesse loro la straordinaria grazia di quella guarigione, poteva bastare un'assenza temporanea, un viaggio, un breve soggiorno altrove. A ogni modo ci si sarebbe pensato allora. Perchè affrontare un trambusto simile, un vero cataclisma, nella previsione di avvenimenti pur troppo incerti? La marchesa volle far allusione al pericolo di villa Diedo ma si spiegò così disgraziatamente male che il bravo Zaneto non durò fatica a sgominarla con una carica di rettorica ottimista. Egli chiese poi, tutto umile, il perchè di questo imporgli condizioni. Qui trovò duro. La cara "vecia mia" gli rispose risolutamente che voleva vederlo "meterse quieto" e che il solo modo per lui di "mettersi quieto" era quello proposto da lei. Allora Zaneto si ritirò accigliato dentro le trincee della propria dignità. Nemmanco intendeva ciò che questo "mettersi quieto" significasse. Non sapeva di aver mancato, per grazia di Dio, ai suoi doveri familiari. Se un dovere familiare gli prescrivesse di trasferirsi altrove, saprebbe compierlo senza bisogno di condizioni e di patti fermati prima. Non capiva, madama, che questa sua condizione era un'offesa? Madama non volle saperne di capirlo e tenne più duro che mai, cosicchè Zaneto non volle saperne alla sua volta di continuare il discorso. Ora ella espose a don Giuseppe il suo piano, il messaggio ch'egli avrebbe dovuto portare a Zaneto; e, fedele all'abitudine sua della reticenza, non fiatò del suo tentativo diretto, della disfatta. Temeva che don Giuseppe, se sapesse, declinasse l'incarico o almeno lo eseguisse senza quella fiducia ch'è sempre una forza. Don Giuseppe guardava stupito e ammirato la vecchia signora della quale aveva creduto sino a quel momento che apprezzasse sufficientemente i beni terreni, che avesse un certo affetto alla proprietà e sopra tutto che sarebbe morta prima di lasciare la sua casa, la sua chiesa, le sue vecchie amiche, le sue abitudini. Ella, che solo per affetto alla figliuola e per una ascetica devozione all'ordine si era sempre governata da custode tenace degli interessi propri, se ne stava lì confusa davanti a lui, lontana dal pensare di aver detto cose ammirabili come dal credere di aver parlato greco. Don Giuseppe non sapeva come avrebbe fatto a compiere la missione propostagli ma sentì, davanti a Dio, di non poterla

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Argomenti: lungo tempo,    pari tempo,    sostanza stabile,    campo maggiore,    filosofico argomento

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