Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 5

Testo di pubblico dominio

ascetismo compiuti dal marchese Scremin in segreto. Ci aveva in corpo quel baco del Senato, sì; un baco guastamestieri! Don Serafino stava considerando minutamente, a bassa voce, il disgraziato baco e i suoi malefizi, quando, allo svoltar d'un canto, il suo compagno lo interruppe con un colpo di gomito. Quegli aveva sfiorato, svoltando, un signore astratto che svoltava nel senso opposto, e camminava adagio, con le mani nelle tasche del soprabito. "Gala visto el consiglier!" diss'egli, fatti pochi passi. "Mi no. Che consiglier?" "Eh, cosso! Maironi!" Maironi! A quest'ora! Da queste parti! Dove sarà andato? In conversazione non si vede più. Tanti lo trovano più distratto, quel giovine, più cupo. Ogni mattina a messa, ogni sera alle funzioni, ogni otto giorni ai Sacramenti. È sempre stato pio ma non a questo punto. E carità, carità senza fine. "Perchè mi so!" La sua disgrazia, sì! Ma insomma non è cosa nuova, son quattro anni, adesso. No, non poteva esser questo. Un buon giovine, ma un po' strano anche lui, sapete. Il sangue non è acqua, dicono che sua madre sia stata una testa calda, e suo padre: hèhèoli! Buono, però! Ecco, un santo davvero. Una fede, una carità! E devoto alla causa! Clericale proprio di quei convinti, capite; perchè, inter nos, anche fra i nostri della zizzania ce n'è! C'è chi tira alla scarsella e c'è chi tira a far chiasso, a farsi un nome, un'influenza. Pochi, ma ce n'è! Quello lì no; eh, quello lì! E talento. Talento grande. — Qui don Serafino si fermò sui due piedi, cavò la tabacchiera e, ficcate le dita nel tabacco, soggiunse con importanza: "Adesso lo femo sindaco, capìo". III Intanto il signore astratto si avviava con un'andatura stanca verso il palazzo Scremin. Trovò il portone chiuso, spento il gas nell'atrio, spento il gas sulle scale. Entrò nel suo appartamento, al primo piano, in faccia a quello abitato dagli Scremin. Si stava levando il soprabito nell'anticamera quando fu leggermente bussato all'uscio. Aperse. Era la giovane cameriera della marchesa Nene, una figurina snella e alta, bionda, vestita di scuro, con i capelli arruffati sulla fronte. Egli impallidì, le domandò, tenendo la maniglia dell'uscio, che volesse. La ragazza lo fissò, pallida anche lei, con due belli occhi azzurri, arditi nel fondo, velati di dolcezza. "Scusi un momento" diss'ella. "C'è una cosa." Si guardò, con una mossa rapida, alle spalle e ripetè: "Le avrei a dire una cosa". La voce, un po' fioca, un po' grossa, era tuttavia musicale. Il giovane esitò un momento, poi mormorò: "Avanti" e si fece da banda. La camerierina passò sfiorandolo col suo odor tepido di capelli giovani e di persona monda, sussurrò un "grazie" pieno di senso, pigliò il soprabito del signore, s'indugiò ad appenderlo all'attaccapanni, ad assettarvelo con leggeri colpettini delle mani non bianche ma piccole e sottili. La lucernetta, che ardeva sulla consolle in faccia all'attaccapanni, le dorava i capelli magnifici attorti sulla nuca come un groppo di serpi. "C'è stato il giardiniere" diss'ella accarezzando ancora il soprabito e parlando piano, quasi con tenerezza, come se le parole fossero state più di quell'abito e di quelle carezze, che d'altro. "Il giardiniere ch'è andato via." Per qualche momento ella non si udì risponder nulla, e le sue mani parvero moversi incerte, a caso. Poi il giovine disse: "Cosa..." con voce diversa dalla solita e non compiè la frase. Ella si chinò a raccattar chi sa che, gli offerse un baleno del suo fine collo bianco. "Dice" riprese ancora più sottovoce, "che forse andrà dai signori Dessalle e che i signori Dessalle domanderanno informazioni alla mia marchesa e che allora Lei ci potrebbe forse mettere una parola buona. Dice pure che Lei ora diventerà sindaco e che gli raccomanda un suo figliuolo per la biblioteca." Si voltò, diede un'occhiata alla lucerna che fumava, si mosse, adagio adagio, per andarne ad abbassare il lucignolo e nel passar davanti a Maironi gli alzò in viso due occhi grandi, vitrei, pieni di una chiara proposta. Egli fremette ma non disse niente. La biondina si pose ad abbassar lentamente il lucignolo, giù, giù, senza sosta, quasi fino a spegnere. Allora Maironi disse brusco: "La signora ha suonato." "Ha suonato?". Colei trasalì, rialzò il lucignolo, guardò il giovine in viso, capì subito di avere passato il segno. "Se quell'uomo ritorna" riprese Maironi, "gli dica che per le informazioni parlerò." La ragazza rispose asciutta "va bene", se n'andò dritta e seria senza degnarlo nè d'un saluto nè d'uno sguardo. Rimasto solo, il giovane si strinse i pugni alle tempie, li battè con impeto sul piano della consolle, ve li tenne per un momento, ansante, guardandosi nello specchio, interrogando, quasi, l'immagine di se stesso. Poi, a un tratto, come se avesse paura del proprio viso, del proprio sguardo, dei propri pensieri, soffiò furiosamente sulla lucerna, entrò al buio nella sua camera da letto, si gittò ginocchioni sull'obliqua lama di luce biancastra che per una grande finestra il cielo notturno gittava sul tappeto del pavimento, giunse le mani di slancio, guardando il chiaror fioco delle nuvole. Passati alcuni secondi, gli occhi suoi poco a poco discesero fino al davanzale della finestra, fino all'ombra; si fermarono come smarriti in una visione. Egli pareva immaginare con la volontà sospesa, nè consentendo nè resistendo alle immaginazioni, cose che gli togliessero il respiro. Si scosse, si gettò bocconi a terra figgendo il viso sul pavimento. Poi balzò in piedi, accese una candela e, snudatosi il braccio destro, lo tenne a più riprese, stringendo il pugno, sulla fiamma. Si guardò le grandi macchie rosse delle scottature, mise un sospiro di sollievo, trasse il portafogli, lo aperse, contemplò una piccola fotografia ovale, il viso di una giovinetta sui diciott'anni, regolare, freddo nella espressione e tuttavia non senza una tal quale malinconica dolcezza nell'occhio e una più spiccata fermezza nel mento. L'acconciatura altissima, passata di moda da cinque o sei anni, lo guastava come un goffo accento circonflesso e faceva pensare a una persona morta. Il giovane se lo accostò alle labbra ma poi non ebbe cuore di baciarlo, parendogli esserne indegno, depose sospirando il portafogli sul tavolino da notte e soltanto allora vi scorse un mazzolino di violette sopra una lettera. Il suo pensiero corse alla cameriera toscana. Era lei, forse, che aveva scritto, che offriva i fiori. Nè volendo nè disvolendo mosse lentamente la mano, tolse le violette di su la lettera e restò con la mano in aria, tutto amaro di vergogna. Non era una lettera, era un cartoncino e aveva due sole parole di pugno della marchesa Nene: 17 marzo. Piero Maironi ed Elisa Scremin, la donatrice del portafoglio, si erano fidanzati il 17 marzo 1882 e ogni anno la marchesa Nene, con un delicatissimo, poetico pensiero, aveva silenziosamente ricordato così a suo genero il giorno felice, diventato giorno di lagrime. Ora, per la prima volta, il 17 marzo era giunto senza ch'egli ricordasse. Neppure le viole glielo avevano rammentato. Dio, e aver pensato che venissero dalla cameriera! Ne chiese mentalmente perdono alla riverita vecchia signora con uno slancio che subito gli mancò nella morta sfiducia montante dal fondo dell'anima. Si coricò senza pregare, covando un disordine di sentimenti informi: umiliato amor proprio, cruccio di non sentirsi alcuna dolcezza della vittoria materiale sulla tentazione, rancore sordo contro Iddio che taceva, dubbi che il suo lottare con la natura fosse inutile e stolto, dubbi di essere un miserabile schiavo inconscio di pregiudizi religiosi e morali impressi dagli altri, e per sempre, nella sua molle coscienza infantile, terrore e rimorso di questi dubbi, propositi di lottare ancora. Poi, chetati alquanto i moti incomposti dell'animo e successovi un lieve sopore, gli risalì nell'ombra interna del capo e gli fugò il sonno l'immagine più e più viva della donna

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Argomenti: due sole,    cielo notturno,    grande finestra,    disgraziato baco,    goffo accento

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