Piccolo mondo moderno di Antonio Fogazzaro pagina 7

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puoi aiutarlo. Vedi vedi, che tesoro di clienti ti fai!" Piero lo fissò in silenzio, leggendogli nelle pieghe dell'anima, e, finito di leggere, cambiò discorso. "Avevi un'altra cosa, mi pare" diss'egli. Il marchese ostentò di reprimere grosse ondate di riso, ostentate anche quelle. "Sì, un'altra cosa" diss'egli. "Un'altra cosa sicut et in quantum." E mise fuori l'altra cosa, non senza sussultare ancora, tratto tratto, di riso represso. Un ambasciatore della stessa risma di coloro ch'eran venuti colla fascia sindacale in tasca, aveva picchiato all'uscio di Zaneto molto più segretamente e timidamente per averne aiuto a cavare quattrini dal genero in pro del giornale clericale. Zaneto riferì il messaggio con lo stesso umorismo di cui aveva lievemente condite, poco prima, le suppliche di quei tali clienti, aggiunse sale alla vivanda amara volendo renderla impossibile al palato, non tanto per una paterna cura de' quattrini insidiati quanto per il desiderio che il giornale più inviso alla Prefettura non ricevesse aiuti da casa sua. "La parte mia" conchiuse il vecchio diplomatico, "l'ho fatta." E si alzò. Maironi credette finito il colloquio, ma s'ingannava. Il suocero si accostò al suo letto, gli prese una mano, gli disse sottovoce, tutto mutato in viso: "Senti", represse a stento dei singhiozzi come prima aveva represso il riso e potè finalmente spiccicare queste due parole: "Quando vai?..." "Al solito" rispose Piero, pure sottovoce. "Posdomani." "E credi che la vedrai?" "Ma no, lo sai bene che da molto tempo il direttore non vuole più." Allora Zaneto ruppe in singhiozzi più forti. Maironi sapeva che il vecchio portava veramente affetto alla figliuola reclusa in un luogo di sventura; sapeva che quelle lagrime non si potevano dir false. Pure, siccome il modo suo di sentire e di esprimere il dolore era affatto diverso, le dimostrazioni così rumorose e intempestive di Zaneto gli ferivano i nervi come a suo padre le dolcezze della süra Peppina. Il sangue che ora gli corse al viso era proprio il buon sangue impetuoso del povero Franco. "Oh Signore!" mormorò Zaneto asciugandosi gli occhi con un fazzolettone biancastro. "Cosa?" Piero trasalì. Che c'era di nuovo, adesso? "Oh! Una cosa, una cosa! Uno sforzo tale che debbo fare!" Nuovi singhiozzi, nuove lagrime, affannosa ricerca del fazzolettone per tutte le tasche, brancicamento, molto spiacevole a Piero, delle lenzuola, scoperta, finalmente, del sudicio coso fra le gambe della sedia quando gli occhi si erano asciugati da sè e Zaneto non poteva, decentemente, rimettersi a lagrimare. "Cosa vuoi? Bisogna pur parlare. Sai che il termine dopo il quale tu puoi conseguire il capitale della dote di..." Una pausa, una contrazione del viso, una vittoria della volontà. "... scade l'anno venturo. Occorre dunque parlarne. Ora ti confesso che nelle mie condizioni il metter fuori questa somma..." Piero lo interruppe. Ma di che si crucciava mai? Ma che termini, che scadenze! Facesse il comodo suo. Allora il buon Zaneto s'impelagò in un mar di parole ingarbugliate, nè avrebbe riguadagnata la riva senza il soccorso altrui. In sostanza quel chieder la proroga dell'affranco della dote non era stato che un esordio, una introduzione alla proposta di addossare per l'avvenire al genero il pagamento della ricchezza mobile. Piero capì subito che il pover uomo recitava male una lezioncina spuntata, meditata e composta dentro quel duro e freddo bernoccolo degli affari che fioriva sotto le trecce grigie della marchesa Nene, in amichevole compagnia con parecchi altri bernoccoli di opposta indole. "Ma tutto quel che volete!" diss'egli, sdegnoso. "Abbi pazienza" fece il povero Zaneto. "Abbi pazienza. Le cose bisogna dirle, eh!" Cavò l'orologio, trasalì, fece "ohe, ohe!" e scappò dicendo che aveva l'impegno di andare con la Nene in Duomo alla novena di san Giuseppe. Uscito Zaneto, Piero pensò lungamente guardando nella sedia vuota la impronta sincera del suocero pesante, lo sgualcimento scandaloso e ignobile, senza velature diplomatiche, senz'alcuno di quegli accomodamenti studiati ch'erano familiari a Zaneto quando intendeva produrre impressione in altrui con una parte diversa di sè, con la parte superiore e più degna. Poi si vestì e scrisse la seguente lettera a monsignor De Antoni: Monsignore, Voglia, La prego, informare monsignor Vescovo che se i miei colleghi penseranno proprio di chiamarmi a quell'ufficio malgrado le mie scarse attitudini e la mia totale inesperienza della cosa pubblica, lo accetterò. Gli dica pure che confido molto nelle sue preghiere. Mi raccomandi a Dio, monsignore, anche Lei. Suo devotissimo P. Maironi Rilesse e si disse: "Fino a qual punto sono sincero? Fino a qual punto sono ipocrita?". Entrò Federico recando una lettera. "Qualcuno" pensò Piero, "che suonerà il pelittone in mi." Si disdisse subito. Era una busta di carta pergamena, leggermente profumata di violetta, con questo semplice indirizzo: — Signor Maironi — a caratteri grandi e sicuri. Chi l'aveva portata? Un cameriere dei forestieri di villa Diedo. Piero aperse e lesse: Signore, Un tale Pomato ci si è offerto per giardiniere asserendo di essere stato lungamente al Suo servizio. Mi permetto di chiederle, a nome pure di mio fratello, ch'è assente, qualche informazione circa l'abilità e l'onestà di quest'uomo. Gradisca le mie scuse per l'incomodo che Le reco. Jeanne Dessalle P.S. Sono in casa il lunedì e il venerdì dalle cinque alle sette. Federico domandò se vi fosse risposta. Maironi tacque, assorto nelle due righe discrete, significanti del poscritto. Egli aveva viaggiato due mesi prima in ferrovia con una giovane signora elegantissima, dai lineamenti molto spiccati, ma bella, dagli occhi grandi, intelligenti e dolci che troppe volte si erano incontrati con i suoi e gli erano poi rimasti parecchi giorni nel cuore. La signora era discesa con lui e nello staffiere in livrea che ne aveva preso la valigetta egli aveva riconosciuto un antico domestico di casa Scremin, passato al servizio dei Dessalle. Adesso i due grandi, intelligenti, dolci occhi gli si erano riaperti nel cuore. "Risposta?" diss'egli, guardando ancora il poscritto. "No, adesso no." Ma poi, quando Federico era già uscito, lo richiamò: "Aspetta, sì, c'è risposta". E scrisse: Signora, Il Pomato fu veramente al servizio del marchese Scremin, mio suocero. Lo credo abile. Ho inteso dire che fa professione d'idee socialiste. Non so che gli Scremin abbiano mai sospettato della sua probità. Con perfetto ossequio. Devotissimo P. Maironi Consegnò a Federico il biglietto senza rileggerlo e congedò bruscamente il povero diavolo sbalordito: "va là! va là", come se temesse di pentirsi ancora. CAPITOLO SECONDO
NEL MONASTERO I Un servo tagliato all'antica introdusse nella sala del biliardo il signore che aveva chiesto di don Giuseppe. "Il suo nome, di grazia?" diss'egli. "Maironi." Quegli andò in cerca del padrone. L'uscio a vetri, che dalla sala del biliardo mette per cinque scalini al giardino della villa Flores, era aperto. Un languido sole d'aprile moriva sulla coperta grigia del biliardo e sul chiaro impiantito di abete. Entrava con l'aria tepida un odor lieve della pioggerellina fine fine che si vedeva tremolar nel sole, annebbiar le campagne da lontano, sotto il cielo turchino. Il prato pendente in giro alla fronte dell'edificio alto e scoperto, i grandi alberi, che fanno ala quasi a un atteso corteo di principi, suggevano la pioggerellina dolce senza un bisbiglio. Così taceva la casa vuota. Lì nella sala le sedie addossate alle pareti, i pochi altri arredi simmetricamente disposti, il biliardo coperto, parevan tristi come cose morte che serbassero il ricordo della vita. Il domestico non ritornava. Piero uscì sulla scalinata a guardar la pioggerellina muta, e un sentor debole di viole gli rese la visione voluttuosa del primo incontro con la persona che ora gli riempiva il cuore. La vide schiuder lentamente il mantello di pelliccia, mostrar il

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Argomenti: povero diavolo,    giovane signora,    fascia sindacale,    sangue impetuoso,    sudicio coso

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