La favorita del Mahdi di Emilio Salgari pagina 66

Testo di pubblico dominio

aveva chinata sul petto. Lo spettacolo che si presentò dinanzi ai suoi occhi lo fece vivamente retrocedere, urtando il sergente. —Siamo perduti! mormorò egli. Ecco la morte. I guerrieri del Mahdi, che a poco a poco si erano addensati attorno alla zeribak scagliando tremende occhiate sui prigionieri, si erano improvvisamente gettati sui cinquecento Diuka di Tell-Afab, impegnando una sanguinosissima battaglia. Gli egiziani, che avevano subito compreso il motivo dell'attacco, erano balzati in piedi gettando urla disperate, stringendosi l'un contro l'altro, facendo sforzi sovrumani per ispezzare i legami e vendere almeno cara la vita. —Coraggio! gridò il tenente arabo. Tutti attorno a me! Sette od otto lancie, scagliate dagli insorti, caddero nel mezzo della zeribak. Alcuni egiziani, spezzati i legami, raccolsero quelle armi e le impugnarono disponendosi in cerchio intorno ai compagni inermi. Era tempo. I guerrieri di Tell-Afab, dopo una debole resistenza, oppressi dal numero strabocchevole degli assalitori, avevano gettato le armi dandosi a precipitosa fuga. I guerrieri del Mahdi, scalata la palizzata, si riversarono giù nella zeribak mandando urla feroci. L'urto che successe fra questi e i prigionieri fu tremendo. Più di venti uomini caddero al suolo, chi colla testa spaccata fino al mento, chi passato da parte a parte dalle lancie, chi orribilmente mutilato, senza gambe o senza braccia. Il suolo s'inzuppò di sangue per trenta passi all'ingiro. Assaliti e assalitori, spumanti d'ira, mugulando come belve, si mescolarono confusamente menando all'impazzata le armi, adoperando i pugni, le unghie, i denti, strangolandosi, straziandosi le carni, atterrandosi e calpestandosi rabbiosamente. In un momento non si scorse più che un attruppamento di persone che ondeggiavano per di qua e per di là, che avanzavano o che indietreggiavano, che cadevano o che si rialzavano empiendo l'aria di spaventevoli clamori, di urla, di lamenti, di rantoli. Ogni qual tratto da quel gruppo di combattenti uscivan dei guerrieri tutti coperti di sangue, che dopo di aver barcollato rotolavano al suolo per non rialzarsi più. Talvolta era invece un egiziano, livido, esangue, colle vesti a brani, che veniva quasi subito raggiunto, sbranato a colpi di scimitarra o inchiodato a colpi di lancia contro le palizzate. Da cinque minuti la sanguinosa pugna durava, rianimata dall'arrivo di nuovi guerrieri ohe volevano «bere sangue egiziano», quando in lontananza si udì improvvisamente una voce metallica, imperiosa gridare: —Fermi tutti! Ahmed, nostro profeta, lo comanda. A quel comando dell'inviato di Dio, la pugna tutta d'un colpo cessò. Le armi si arrestarono in aria o caddero a terra, poi il gruppo di guerrieri si sciolse colla rapidità del lampo. Ognuno volse le spalle fuggendo a rompicollo, scalando le palizzate e confondendosi fra le orde che si pigiavano attorno alla zeribak. Sul campo insanguinato non rimasero che quattro uomini colle vesti a brani e imbrattate di sangue: il tenente arabo che stringeva convulsivamente in mano una scimitarra e tre egiziani che non si reggevano più sulle gambe. Attorno ad essi c'erano quaranta o cinquanta moribondi che si dimenavano urlando e altrettanti morti, fra i quali uno scièk di colossale statura colla testa quasi staccata dal busto. —Fermi tutti!… Ahmed nostro profeta lo comanda! ripetè la voce metallica e imperiosa di prima. All'entrata della zeribak comparve lo scièk Tell-Afab seguito da dodici Abù-Rof della guardia del Mahdi, montati su bianchi cavalli. Egli si diresse verso i prigionieri che lo aspettavano a piè fermo, risoluti ancora a vendere cara la loro vita. Scorgendo lo scièk disteso ai piedi del tenente arabo, un lampo di collera balenò ne' suoi occhi e le sue labbra si contrassero mostrando i denti candidi come l'avorio. —Chi ha ucciso questo scièk? gridò. —Io! rispose il tenente arabo senza sgomentarsi. —Sei uomo morto! —Poco mi cale. —Abbassate le armi. Il tenente invece di ubbidire, impugnò saldamente la scimitarra, dirigendo l'insanguinata punta verso di lui. Lo scièk parve più sorpreso che spaventato di quella minaccia. —Abbassate le armi! ripetè con un tono di voce da non ammettere replica. —Io l'abbasserò quando tu avrai promesso salva la vita a me e ai miei compagni, rispose il tenente. —Non sono l'inviato di Dio, io. —In tal caso ci difenderemo fino a che avremo la forza di alzare le braccia. Morremo tutti e quattro, lo so, ma assieme a noi morrà anche un buon numero de' tuoi scherani. Tell-Afab divenne cinereo per l'ira, ma si contenne. Alzò la mano dritta e indicando l'immensa pianura nella quale ondeggiavano e brontolavano minacciosamente le terribili orde del Mahdi, gli disse con voce tetra: —Guarda! Basta un mio cenno, uno solo, capisci, perchè tutti quegli uomini si gettino su te e sui tuoi. Se ti arrendi, il Profeta forse ti salverà, se ti rifiuti morrai: scegli! L'arabo esitava. Era evidente che se non deponeva le armi, i guerrieri del Mahdi non avrebbero tardato a scannarlo assieme ai compagni per quanta resistenza avesse ad opporre. Non vi eran molte probabilità di uscire salvi dalle mani del Mahdi, tuttavia qualche speranza c'era. —Mi arrendo, diss'egli, scagliando lungi da sè la scimitarra.
Compagni, abbasso le armi.
Non aveva ancor terminato l'ultima parola, che dieci Abù-Rof si gettarono su di lui e sui suoi compagni afferrandoli strettamente pei polsi e trascinandoli via. I tre egiziani furono condotti in una capanna lì vicina, dinanzi alla quale si affollarono urlando parecchie centinaia di guerrieri; il tenente invece fu condotto dinanzi a un gran tugul sul quale ondeggiava la bandiera del Mahdi. Tell-Afab con un pugno gli fe' volar dalla testa lo sdruscito e scolorito fez, poi lo introdusse nella capanna, lasciandolo solo. —Dove sono? si chiese l'arabo che sentivasi agitato da sinistri timori. Girò gli occhi all'intorno con un misto di curiosità e di diffidenza. Vide che la capanna era divisa da un tramezzo di pelle e che era assai miseramente ammobiliata. Stava per cercare l'uscita, quando un lembo del tramezzo s'aprì e dinanzi gli comparve un uomo che fissò su di lui due occhi vivi, brillanti, a riflessi di due colori. Quell'uomo era alto di statura, magro, esile, colla carnagione di un color caffè al latte, capelli bruno chiari e barba nerissima. Sulle suo gote scorgevansi tre cicatrici parallele e una verruca. Strana cosa, aveva un braccio più lungo dell'altro. Il suo vestito era di una estrema semplicità. Componevasi di una camicia e di un paio di calzoni alla turca di damour (grossa tela di cotone); aveva sandali ai piedi e un piccolo turbante verde sul capo. Il tenente arabo nello scorgere quell'uomo rabbrividì e cadde, senza volerlo, in ginocchio. —Il Mahdi!… esclamò con voce soffocata. Infatti quell'uomo era Mohammed Ahmed, il profeta del Sudan. CAPITOLO II.—Il Mahdi. Mohammed Ahmed nacque nel 1843 a Dongola nella Nubia; Amina chiamavasi sua madre e Adullah suo padre, il quale esercitava la professione di falegname. Fino dall'età di 7 anni questo strano personaggio destinato a diventare così grande, così potente, frequentò la scuola mussulmana e con tanta passione che a 12 anni aveva completati gli studi dell'Alcorano. Grazie all'affezione dei suoi due fratelli stabiliti come calafati a
Shindi e di un suo zio costruttore di barche sul Nilo Bianco, potè
proseguire i suoi studî a Chartum[1] sotto i due celebri maestri
El-Gouradchi e Abd-el-Ayim, figli dello sceicco El-Tayeh.
Non tardò a diventare un fanatico missionario dell'islamismo e credette essere il suo compito quello di paralizzare e distruggere il potere degli europei che impedivano il commercio degli schiavi e comandavano al vicerè d'Egitto, di ricostruire l'antico impero arabo, di raggruppare attorno a sè tutti i credenti del profeta e di fondare una religione universale colla comunità dei beni. Il 1868 lasciava Chartum, e si affigliava

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