La favorita del Mahdi di Emilio Salgari pagina 62

Testo di pubblico dominio

dopo la greca mandava un urlo. L'jatagan di Fathma apparve bagnato di sangue. —Toccata! esclamò l'almea, saltando innanzi come una pantera. —Ma non sono ancora morta, rantolò la greca portando una mano al seno. Avanti, avanti! L'almea attaccò con uno slancio disperato, a corpo perduto, mirando il cuore della rivale e stringendola così davvicino che questa fu costretta a indietreggiare. Per la seconda volta il ferro dell'araba bevette sangue. —Toccata, ripetè ella. —Avanti! avanti! gridò la greca che balzava indietro avvicinandosi, senza accorgersene, al burrone. Il terribile duello continuò per altri cinque minuti in capo ai quali la greca, che non riesciva a tener testa all'araba che era assai più agile e assai più forte, trovossi spossata, col giubettino insanguinato, sull'orlo del burrone. —Guardati, le disse l'almea. Sei morta. La greca volse il capo dietro di sè, vide l'abisso in cui stava per precipitare e gettò un grido di spavento. —Grazia, balbettò ella che sentivasi mancare le forze. —Una di noi deve morire! Urlò l'implacabile Fathma facendo fischiare l'jatagan. Guardati! Non aveva ancora terminata l'ultima parola che il suo jatagan sprofondavasi più che mezzo nella gola della greca, facendo uscire uno sprazzo di sangue spumoso. Elenka, colpita a morte, emise un rantolo. Traballò, cercò di rimettersi in equilibrio, ma le forze le vennero meno; lasciossi sfuggire di mano l'arma, dilatò spaventosamente le pupille nelle quali brillava un ultimo lampo di minaccia e precipitò, roteando, nel fondo del baratro. S'udì un tonfo sordo sordo come d'un corpo che si fracassa, poi successe un silenzio di morte. L'almea, pallida per l'emozione, coll'jatagan insanguinato in mano, s'avanzò fino all'orlo del burrone e guardò giù. Nel fondo fra le roccie aguzze, scorse il deformato e straziato corpo della bella Elenka illuminato vagamente dai freddi e melanconici raggi dell'astro della notte. Rabbrividì e dette indietro. —È morta! è morta!… mormorò ella con voce cupa. Allàh mi perdonerà. Si volse per fuggire da quell'orribile luogo e si trovò dinanzi a
Omar.
—È proprio morta? chiese il negro. —Sì, Omar. —Siamo adunque vendicati. Fratello e sorella sono entrambi spenti. —Taci, fuggiamo di qui. Questo luogo mi fa paura. —Dove andiamo? —A salvare il mio fidanzato. —Vuoi recarti sulle rive del lago? —Zitto, disse Fathma. Odi? Il negro tese l'orecchio. In lontananza, verso il campo egiziano, s'udivano squillare le trombe e rullare fragorosamente i tamburi. —Che succede? chiese egli. Una battaglia forse? —No, è l'esercito egiziano che marcia sulla capitale del Mahdi. —E noi andiamo? —A El-Obeid. L'almea si gettò ad armacollo il remington e discese di corsa la collina seguita dal negro. Ella si arrestò alcuni istanti nella pianura cogli occhi fissi su due punti neri che scendevano dal cielo, ingrandendo a vista d'occhio. —Guarda, Omar, diss'ella rabbrividendo. —Vedo, rispose il negro. Sono aquile che calano nel burrone. —Povera Elenka! Questa sera non rimarranno di lei che le spolpate ossa a pasto delle belve feroci. Soffocò un sospiro e riprese la corsa internandosi nel palmeto. Man mano che si avanzavano gli squilli di tromba e il rullo dei tamburi diventavano più sonori. Talvolta s'udivano nitriti di cavalli, voci confuse di uomini e muggiti di buoi, che il vento portava. Cominciava ad albeggiare quando essi giungevano agli avamposti. Il campo era in piena rivoluzione ed interamente mutato. Le tende erano state levate, i fasci di fucili sciolti, i cannoni attaccati ai cavalli, i cammelli e i muli aggruppati alla rinfusa e carichi di viveri, munizioni e bagagli. Gli ufficiali correvano dappertutto dando ordini, formando le compagnie, i battaglioni e i reggimenti che si spiegavano formando un immenso quadrato ai cui lati galoppavano disordinatamente i basci-bozuk colle scimitarre sguainate e le pistole in pugno. —Si parte? chiese Fathma arrestando un basci-bozuk che le passava vicino. —Sì, rispose il turco. —Tutti assieme? —Tutti assieme. —E Aladin pascià? —Viene con noi. —Dov'è Hicks? —In mezzo al campo col suo Stato Maggiore. —E O'Donovan? —Sarà presso il pascià. —Accorriamo, Omar, disse Fathma, congedando con un gesto il basci-bozuk. Entrarono nel campo facendosi largo fra tutti quei soldati affaccendati ad arrotolare le tende, a caricarsi degli zaini, a bardare i cavalli, a trascinare i cannoni, a dispensare armi munizioni e raggiunsero lo Stato Maggiore in mezzo al quale stavano Hicks pascià discutendo vivamente col colonnello Farquhard. O'Donovan, che era nel gruppo, s'affrettò a correre a loro incontro conducendo tre cavalli bardati. —By-good! esclamò egli. Credeva che vi fosse toccata qualche disgrazia e stavo per radunare alcuni basci-bozuk per venirvi a cercare… Sapete qualche cosa di Abd-el-Kerim? —Sì, mio nobile amico, rispose Fathma. Sappiamo più di quello che speravamo. —E dunque? —È prigioniero dello scièk Tell-Afab che sta ora guerreggiando sul lago Tscherkela. —Vivo allora? —Sì, vivo, ma non per questo salvo. —Che avete intenzione di fare? —Dove va l'esercito? —A dare battaglia alle orde del Mahdi sotto El-Obeid, rispose il reporter. —Vengo con voi. —Fate bene. Quando avremo espugnata la città pregherò Hicks pascià che ci dia un centinaio di uomini per andar a liberare Abd-el-Kerim. Presto, amici miei, in sella, e che Iddio ci aiuti a vincere! CAPITOLO XVI.—Il massacro di Kasghill. Erano le sei del mattino del 1° gennaio, quando l'esercito egiziano comandato da Hicks pascià si mise in marcia dirigendosi verso El-Obeid, la capitale del Kordofan, la città forte, o meglio, il quartier generale del Mahdi Ahmed Mohammed. Si componeva di oltre diecimila uomini fra egiziani e basci-bozuk, nubiani e sennaresi, bene armati, ma affatto demoralizzati, affranti dalle fatiche, dalle sofferenze, dalle malattie, dai torridi calori; di diecimila uomini infine risoluti bensì a espugnare El-Obeid, poichè la presa di questa città era l'unica risorsa che a loro rimanesse per mettere fine a quella interminabile campagna e per evitare un probabile disastro, ma impotenti di sostenere un vigoroso urto delle orde del Mahdi. L'esercito procedeva diviso in sei quadrati, ma assai lentamente, fiancheggiato sulle ali dei basci-bozuk i quali galoppavano nel massimo disordine colle scimitarre in pugno. Ogni soldato aveva la baionetta inastata per essere pronto a respingere i primi assalti degli insorti che non dovevano molto tardare. Faceva un caldo terribile. Il sole versava proprio a piombo, raggi infuocati che rendevano le sabbie così ardenti che il camminare a piedi scalzi, era affatto impossibile. Per di più, un'immensa nuvola di polvere si alzava sotto quelle migliaia e migliaia di piedi o ricadeva qua e là acciecando e soffocando quei disgraziati soldati. Per due ore l'esercito fiancheggiò il palmeto di Kasegh cercando di tenersi all'ombra, poi entrò in una vastissima pianura sabbiosa, calcinata dal sole, sparsa di arditissime rupi e di magri cespugli. —Che brutto luogo, disse O'Donovan, che cavalcava a fianco di Fathma. —Temete qualche cosa? chiese l'almea. —Non scordatevi Fathma, che oggi è il 1° gennaio. —Che vuol dire ciò? —Ho udito dire che il 1° gennaio il Mahdi ci darebbe battaglia. —Ubbie, amico mio. —Non correte tanto, Fathma. È un bel pezzo che io sento dire che la luna del 1° gennaio è incaricata di vendicare l'Islam. —E ci credete? —Un po'. —Ma io non vedo i ribelli, O'Donovan. —Non è ancora sera, Fathma. La conversazione finì lì. L'esercito intanto continuava ad avanzarsi, ma non più coll'ordine di prima, i soldati spossati, trafelanti, arsi vivi, andavano a capriccio, a branchi a drappelli, coi fucili ad armacollo, tentennando come ubbriachi. Uno cadeva qui colpito da una insolazione, e rimaneva boccheggiante sulle sabbie ardenti; un altro cadeva là impotente di

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Argomenti: due ore,    terribile duello,    ultimo lampo,    tonfo sordo,    interminabile campagna

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