La favorita del Mahdi di Emilio Salgari pagina 65

Testo di pubblico dominio

Kababich in uniforme bianca, di negri Megianin, di Aulad-el-Behr, di Hababin; ondate di Sennaresi, di Nubiani, di Arabi, di Scilucchi, di Basci-bozuk rinnegati, tutti armati chi di remington tolti agli egiziani nella sanguinosa battaglia di Kasghill, chi di moschettoni a pietra o a miccia, chi di lunghe spade dritte a due tagli, chi di scimitarre di tutte le lunghezze e larghezze, o di lancie, o di mazze, o di scuri, o di coltellacci, o di randelli ferrati. Tutti quei guerrieri che parevano impazziti, si dirigevano di corsa verso le trincee che difendevano il campo dal lato meridionale e vi si affollavano confusamente sopra, urtandosi, atterrandosi, bisticciandosi per arrivare primi. Mille e mille domande s'incrociavano per l'aria formando un baccano assordante che veniva smisuratamente ingrossato da un furioso strepitare di noggàra[1] e di darabùke, da un rullare di tamburi egiziani e da uno squillare acuto di mille bizzarri istrumenti musicali. [1] Noggàra e darabùke, sorta di tamburoni di legno scavato che vengono percossi con delle mazze. —Ma siete sicuri che verranno? chiedevano gli uni. —Ma sicurissimi, rispondevano gli altri. —Avete veduto il cavaliere che recò la notizia? —Coi nostri propri occhi e l'abbiamo udito colle nostre orecchie. —Hanno dunque vinto? —Ma sì, sono vincitori. —Ci sono prigionieri? —Altro che! E prigionieri egiziani. Una cinquantina. —Un centinaio. —Un migliaio. —Che marmellata che faremo. Li massacreremo tutti. —E pianteremo le loro teste dinanzi le porte di El-Obeid a tener compagnia a quella di Hicks pascià. —Benissimo! Bravi! Morte agli infedeli! Guerra ed esterminio. —Morte agli infedeli! —Eccoli! gridò una voce tonante. —Eccoli! ripeterono cinquantamila voci. —Viva lo scièk Tell-Afab! urlarono tutti. In lontananza scoppiò una scarica di fucili e si udirono strepitare i noggàra e le darabùke. Il più profondo silenzio regnò come per incanto fra quella moltitudine di guerrieri accavallati sulle trincee: tutti gli occhi si fissarono attentamente verso il sud. Una nube di polvere alzavasi verso quella direzione ed in mezzo ad essa, percosse dai raggi del sole, brillavano lancie, scimitarre e baionette. Un grosso attruppamento di guerrieri si avanzava a passo di corsa verso il campo. In testa cavalcava un bel negro col petto racchiuso in una cotta d'acciaio, un gran turbante verde sul capo e una magnifica farda d'egual colore pendentegli dalle spalle. Nella mano dritta impugnava una larga scimitarra, una sekkin, e nella sinistra teneva la bandiera del Mahdi che faceva vivamente ondeggiare al disopra della sua testa. Dietro a lui si trascinavano con grandi stenti ventisei prigionieri egiziani, scalzi, laceri, insanguinati, tutti piagati e solidamente legati. Venticinque erano poveri fantaccini sulle cui spalle grandinavano ad ogni istante colpi di corbach che strappavan a loro urla di dolore. Il ventiseiesimo era invece un tenente arabo di alta statura, di forme eleganti ed insieme vigorose. Era più triste e in più deplorevole stato degli altri; camminava facendo sforzi sovrumani e teneva il capo inclinato sul petto. Ogni qual tratto però lo rialzava con violenza e allora mostrava una faccia abbronzata, maschia, ardita, ma sulla quale, un attento osservatore, avrebbe scorto le traccie di crudeli dolori, di sofferenze indicibili. Sulla piega delle palpebre si vedevano ancora le umide traccie di recenti lagrime. All'intorno dei prigionieri si accalcavano confusamente guerrieri Baggàra, Denka e Bongo, che agitavano freneticamente le loro armi, scaricando in aria colpi di fucile e acclamando a piena gola lo sceicco Tell-Afab e Ahmed loro profeta. Quando la truppa giunse all'accampamento, una oscillazione violenta, burrascosa, si fece sentire da un capo all'altro delle orde stipate addosso alle trincee. Un immenso e terribile grido lacerò l'aria e salì fino alle nubi. —A morte i prigionieri! A morte gli infedeli! Viva Tell-Afab! I guerrieri del Mahdi si rovesciarono come una fiumana giù per le trincee e andarono a cozzare furiosamente contro i guerrieri dello sceicco Tell-Afab dividendoli in mille differenti gruppi. Ogni arma si tese minacciosamente verso gli egiziani che si erano arrestati tremanti di spavento. —A morte gli infedeli! gridavano gli uni. —Al fuoco gli egiziani! urlavano gli altri. —Tagliate a loro la testa! —Ammazzate col corbach quei cani! —A morte!… a morte!… Lo sceicco Tell-Afab, scorgendo il pericolo che correvano quei poveri diavoli, volse in furia il cavallo e urtando quelli che gli si stringevano d'attorno e calpestando quelli che gli si paravano dinanzi, corse in loro aiuto. —Largo! largo! tuonò lo sceicco. —Morte agli egiziani! vociarono i guerrieri del Mahdi, agitando freneticamente le armi. —Fate largo! ripetè Tell-Afab. Fate largo! I suoi guerrieri percuotendo a dritta e a manca colle impugnature delle scimitarre, coi calci degli archibusi, colle aste delle lancie, riuscirono a ributtare l'onda dei fanatici e si spinsero innanzi trascinando con loro gli egiziani che non avevano più sangue nelle vene. Venti volte i guerrieri di Ahmed tentarono di sfondare il cerchio formato dai Baggàra, dai Denka e dai Bongo e venti volte furono ributtati lasciando sul terreno più di uno di loro malconcio. Ciò non impedì però che una lancia spaccasse la testa ad uno dei prigionieri, il quale, lasciato a terra moribondo, dopo essere stato spietatamente calpestato dai Bongo, dai Baggàra e dai Denka, cadde nelle mani dei guerrieri di Ahmed. Il disgraziato, quantunque ancora respirasse, fu sollevato sulle punte delle lancie e sbranato: la sua testa, infissa in uno spiedo, andò ad ornare la capanna d'un potente sceicco. Questo incidente diede tempo ai guerrieri di Tell-Afab di giungere in mezzo al campo dove rizzavasi una vastissima zeribak con solide palizzate. I prigionieri furono in fretta e a suon di legnate cacciati là dentro e cinquecento uomini li circondarono colle armi in pugno sia per impedire a loro la fuga, sia per arrestare i guerrieri di Ahmed che già tornavano alla carica vociferando spaventosamente. Gli egiziani, pallidi, disfatti, tremanti di spavento, si lasciarono cadere a terra girando all'intorno sguardi inebetiti. In piedi non rimasero che il tenente arabo e un vecchio soldato sulla cui giacca stracciata e scolorita scorgevansi ancora dei gradi in gran parte strappati. —Tenente, ripetè, toccandogli una spalla. L'arabo che pareva assorto in tetri pensieri, non rispose. —Tenente, ripetè, toccandogli una spalla. —Che vuoi? chiese l'arabo volgendosi verso di lui. —Che succederà di noi? —Fra qualche ora le nostre teste andranno ad abbellire le capanne degli sceicchi. —Giusto Allah! —Hai paura della morte tu? gli chiese con accento quasi ironico l'arabo. Per me la morte è un sollievo. Benedirò la scimitarra che mi spiccherà la testa dal busto. Il vecchio soldato lo guardò con ispavento. —Oh! non dite così! esclamò. —Perchè? Quale speranza, ormai mi rimane? A che vivere quando la vita è un continuo tormento, un continuo strazio? Soffro troppo… ho il cuore spezzato…. bisogna che muoia! —Ma forse non è morta… chissà… Sulle labbra dell'arabo spuntò un sorriso pieno di amarezza. —Perchè illudermi?… Son tre mesi che io interrogo quanti uomini mi passano dinanzi, e non udii mai parlare di lei. È morta!… è morta… oh! io lo sento! esclamò egli. —Ma chi lo afferma? —Il mio cuore, il suo silenzio, tutto!… Povera Fathma!… povera donna! Egli si prese la testa fra le mani con un gesto di disperazione e un singhiozzo lacerò il suo petto. —Non parliamone più, mormorò egli con voce cavernosa. Il dolore è troppo atroce. Forse nella tomba troverò la felicità che mi fu negata quassù!… La sua voce fu coperta da uno spaventevole baccano, da un urlo indescrivibile, da un cozzar fragoroso d'armi e da un rullar furioso di noggàra e di darabùke. Alzò la testa che

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Argomenti: profondo silenzio,    sorriso pieno,    turbante verde,    terribile grido,    tenente arabo

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