L'amore che torna di Guido da Verona pagina 87

Testo di pubblico dominio

essere tua; tutto il rimanente non fa che passare accanto alla mia anima. E, vuoi che ti dica la verità? Sposandomi, oltre a quel proposito, avevo anche un desiderio diverso: volevo rinnovarmi, vivere io pure una vita rumorosa, rendermi vietata, invidiata... ma solo per piacere a te. Credevo che la mia forza bastasse per godere questa intima vendetta senza lasciarmi vincere da lei. Perdonami dunque se ora cerco in te un rifugio contro il mio rimorso. Ora egli è scomparso. Poich'era migliore di quanto supponessi, rimane in fondo al mio cuore la memoria quasi d'un amico, ed il pensare a lui mi fa profondamente male. Ma, quando me lo dissero, sùbito, come in un baleno, senza potermelo impedire, il mio pensiero corse a te; fu quasi uno sprazzo di luce nel buio che dentro mi stringeva — una visione ch'ebbi vergogna di aver guardata... La pietà mi vinse poi, e divenne affannosa quando lo vidi morto, su la bara, con la testa fasciata e sfigurata, le mani chiuse, la bocca torta in uno spasimo di dolore Oh, come ho pianto! E lo devi comprendere, perchè, davanti a lui, mi sentivo infinitamente colpevole. Mi pareva ch'egli avesse tutto sofferto per lasciarmi sgombra la via della felicità. Ora che ti scrivo è notte; non posso dormire; ho quasi paura; tuttavia mi piace la notte perchè nessuno intorno a me cerca di scrutarmi l'anima. Vorrei che l'alba non venisse mai. Lontano, laggiù, nei giorni che non oso guardare, c'è tanto sole, tanto sole!... e cerco di aver più paura, in questo silenzio, nel cuore della notte, perchè i miei occhi non debban sorridere guardando il sole che laggiù brilla... Senti... e poi no! mi devi comprendere senza che io lo dica. Noi dobbiamo avere un'anima sola; e così, tutto quello ch'io sento, ch'io penso, quand'anche fosse una colpa, resta come suggellato in me. Sai? quell'idea mi ha perseguitato fin dal primo istante, per tutto il viaggio, fin là... E più la cacciavo, più mi afferrava la mente, come se, in mezzo alla tortura, mi sentissi crescere nel sangue un'ondata infrenabile di gioia... Volevo tacere, vorrei anche lacerare questa lettera, ne tremo come di un delitto... ma ho tanto sofferto anch'io, che mi sembra quasi di poter essere perdonata. Fra qualche giorno partirò da Roma; andrò per intanto nella mia villa, e forse, dopo, in un solitario villaggio di montagna. Mi dirai dove... Addio.» XI Becchino che mi seppellirai, se tu sapessi che i morti parlano, avresti certamente un senso di paura nel compiere il tuo lugubre mestiere. In verità i morti parlano, ed io, quando verrai per seppellirmi, comincerò con farti un lungo discorso e rettorico, del quale potrebbe anche darsi che tu non intendessi una sillaba. Ma questo che importa? È un bisogno bizzarro che i morti hanno di essere una volta sinceri, quando più non li vigila nessuna prudenza umana, quando più non li stringe alcuna vanagloria di sè stessi, e nel becchino che li sdraia dentro la cassa di freddo rovere vedono quasi un ultimo funzionario della società umana, che viene per buttarli nella fossa come in un sacro immondezzaio; un funzionario alieno da metafisiche, immemore d'essere a sua volta un cadavere imminente, quindi una persona di buon senso, che valuta l'uomo e la sua spoglia con ammirevole semplicità. Tu hai, becchino, l'abitudine della morte; non la temi non la veneri, non la compiangi; con te si può dunque parlare. Io non ti conosco di persona, ma t'immagino qual sei, anzi mi sembra d'averti una volta incontrato, per istrada, o chissà dove, passando. Poichè, di fatti, ogni vita finisce in polvere ed ogni uomo ha nel mondo il suo becchino che l'aspetta. Qualche volta, uscendo fuor di casa, può darsi che in lui ci s'imbatta viso a viso: ognuno prosegue per i fatti suoi... ci s'incontrerà più tardi... Più tardi. E mentre il mio becchino porta me al cimitero, avviene che il suo proprio lo rasenti gomito a gomito, e passando gli getti un mozzicone di sigaro fra i piedi. È singolare, ma non è forse neanche triste. La vita, la morte: due diversi enigmi d'un fenomeno più grande, che non conosciamo; due forze contrarie che si elidono, due potenze nemiche ma inestricabili, che infuriano attraverso la materia, senza una meta palese. Ho scritto il libro della mia vita; vi manca una pagina: te la racconto, becchino. Dunque non ti conosco, eppure so come sei: un uomo robusto e ruvido, qualcosa tra il facchino in livrea ed il sacerdote in abito civile. Sai di tabacco e d'incenso, di chiesa e d'osteria. L'uniforme tetra non riesce a toglierti quel non so che di gioviale che ti trapela dalla fisionomia; siccome vedi sempre piangere, hai voglia di ridere: è naturale. Fra le tante cose delle quali non ho saputo rendermi conto nella vita, è quella di non aver saputo comprendere come mai, fra i tanti mestieri che vi son da fare al mondo, un uomo possa liberamente scegliersi quello del becchino. È forse una vocazione come tutte le altre, una vocazione macabra, che mi dà tuttavia da riflettere. Tu, per esempio, hai una bella corporatura, sei d'ómeri quadrati ed hai un incedere maestoso... avresti potuto con indifferenza fare il carabiniere, il portiere d'un palazzo, che so io? il custode d'una fabbrica, e perchè no? magari il secondino in un reclusorio. Invece, nient'affatto! Un bel giorno ti sei sentito spinto verso le pompe funebri e ti è piaciuto affrontare la vita nella triste qualità del beccamorto. Può darsi che la familiarità con la quale tu avvicini e maneggi il cadavere, senz'ombra di quella paura ch'esso incute ai pavidi mortali, ti dia su la comune folla degli uomini un senso quasi di potenza e di coraggiosa virilità. Inoltre il mestiere ha i suoi lati buoni; si ha da fare coi preti, che son gente accorta, si va per le case altrui, sbirciando nel cuore delle famiglie; la fatica, se talvolta è gravosa, in compenso non è lunga, e, mentre tutte l'altre industrie possono allentarsi o far difetto all'operaio, quella delle sepolture non varia, e di morti ve ne son tanti ogni giorno, ricchi e poveri, dappertutto. Nella mia casa, quando verrai a prendermi, sarai trattato coi dovuti riguardi, ed il mio maggiordomo, ch'è una persona ospitale, ti darà certo un buon calice da tracannare. In questo modo io sarò per te un di que' morti coi quali occorrono, è vero, molte cerimonie, ma che hanno il merito in compenso di abbandonare un'ottima cantina. E terrai a mente la casa, come una di quelle ove sarebbe opportuno si morisse di frequente. Orbene, senza che tu neppure te n'accorga, io ti farò dalla morte le mie confessioni estreme. «Brav'uomo, — ti dirò, senza muovere la bocca suggellata, — brav'uomo, fa piano! e bada che non cápita spesso ad un volgare becchino par tuo di mettere sotto la terra un uomo quale io fui. In verità sono stato un inutile; ho avuti alcuni desiderii grandi, che nel mio cuore inane si spensero come incendi effimeri di festuche in un campo, brillarono e caddero come il razzo vanaglorioso d'un fuoco artificiale. Poichè dietro me strisciava il senso della universale inutilità, l'odio per le cose piccole, senza il fervore per le grandi, e mi sono cullato nelle braccia della fortuna come sopra una insommergibile nave. La vita, quand'essa mi piacque, me la ghermii come un'amante barbara; quando n'ebbi tutto spremuto il natural piacere, ancora me ne saziai come d'una invereconda cortigiana. Sono stato con allegrezza uno sciupatore indolente, un magnifico dissipatore di tutti quei beni ch'ella mi diede in retaggio, e se non volli insignorirmi d'alcuna sua podestà, fu solo perchè il dominio mi parve una fatica inutile. Questa, becchino, è la sintesi di tutto: «Inutile.» Questa è la parola ch'io vidi splendere su la totale conoscenza della vita, come un disperato limite, che invano tentai di varcare. Talvolta mi resse nondimeno quella superiore coscienza della propria elevazione che alimenta il fervore dei mistici e dei tiranni; sebbene il mio spirito fosse pieno d'esilio come un oceano lo è di

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Argomenti: lungo discorso,    solitario villaggio,    freddo rovere,    ultimo funzionario,    funzionario alieno

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