L'amore che torna di Guido da Verona pagina 49

Testo di pubblico dominio

Non so, che importa? Elia forse... oppure scriverò a Roma. Il giorno dopo non andai a pagare. Mi conoscevano, avrebbero atteso. Non potevo rassegnarmi a rendere quel denaro guadagnato in Borsa poichè mi era tanto necessario. Il domani Elia mi scrisse dicendomi che gli urgeva parlarmi, sicchè mi pregava di passare da lui nel pomeriggio. Abitava un pianterreno elegantissimo, con sale spaziose, adorne di oggetti esotici raccolti ne' suoi viaggi. Quando entrai nello studio, egli stava scrivendo una lettera di molte pagine, che interruppe a mezzo. La scrivania, vasta come una cattedra, era ingombra di libri, manuali, vocabolari, codici e scartafacci. — Che fai tra questo disordine? Mi sembri un ministro nel suo gabinetto di lavoro. — Ho sempre sottomano i libri che mi hanno insegnato a vivere. Questi per esempio. E mi segnò con la mano Spencer, Schopenhauer, Kant. Girando lo sguardo a caso, vidi una Storia di Francia, un Codice di Diritto Marittimo, le Odi di Orazio, un opuscolo su l'estradizione, un manuale delle pietre preziose, le Epistole di Seneca, le Memorie di Casanova, ed un libro che portava questo nome: «Storia dell'America prima dell'invasione latina». — È la vernice — diss'egli, seguendo il mio sguardo e designandomi quei libri con un gesto riassuntivo. Bisogna sapere un po' di tutto; molto sarebbe inutile. Ho l'ambizione di credere che nessuno possa farmi un discorso al quale io non sappia rispondere. Gli uomini ti ameranno quando saprai tenerti al loro livello, mostrando sempre di esserne un poco al disotto, almeno in quelle materie nelle quali si credono più ferrati. — Senti, lasciamo i soliti aforismi e dimmi perchè mi hai chiamato. Prevedevo un esordio ampolloso e mi premeva di andar sùbito alla meta. — Ecco qua. È inutile essere amici quando l'amicizia non reca nessun vantaggio a chi la professa; ti pare? — Tu hai sempre ragione; continua, — feci, stendendomi nella poltrona con l'attitudine di chi deve apparecchiarsi ad una lunga pazienza. — Dunque, — riprese, — mi son risolto ad uscire un poco dal riserbo che mi è parso necessario di usare con te. — Bene! Questo mi fa piacere, perchè infatti era una condizione di cose molto ambigua. — Non cominciare a prender ombra, mio caro amico, e stammi a sentire. La colpa di quest'ambiguità è tutta tua, perchè finora ti sei nascosto. — Può darsi. Quand'io non vedo chiaro... — Precisiamo le cose. Tu, Guelfo, sei un irresoluto; null'altro. E il nasconderti poi non ti è servito a nulla, perchè io conosco le tue condizioni, oserei dire, meglio che non le conosca tu stesso. — Lo so. — Dunque non ne val la pena; tanto più che io sono un buon confessore, e nel mio confessionale sono venute ad inchinarsi alcune fronti più altere che la tua. Sii franco: tu sapevi benissimo che l'amicizia nostra doveva, in un modo o nell'altro, giungere ad un fine determinato, poichè avresti avute mille occasioni per interromperla, se veramente fossi stato alieno da questa eventualità. — Non capisco le tue parole, — dissi duramente. — Via!... sono certo che le comprendi benissimo. Non occorre per ciò una grande immaginazione. Ma, se desideri che si parli con maggior chiarezza, lo farò volentieri. Senti, Guelfo, lasciamo le vie trasverse: tu potresti essermi utile, come potrei a mia volta esserlo per te; lo abbiamo compreso entrambi, e si deve, tra uomini, decidere apertamente: o sì, o no. — Ricòrdati anzitutto, — gli dissi — che finora io sono sempre stato un uomo onesto. — Ne sei ben certo? — egli fece ambiguamente. — Non m'importa che tu lo creda; faccio questa premessa perchè mi sembra opportuna. — Ebbene, se a te pare un gran merito, ammettiamolo pure. Tu sei dunque un onest'uomo: questo però non vuol dire che io mi creda un briccone, o che, nella sua ragione filosofica, la mia morale valga meno della tua. Ma non si tratta per ora di mettere il nostro io sovra una bilancia. Senti, mio buon amico, tu mi sembri oggi un re senza terre il quale cerchi di riafferrare disperatamente il suo dominio perduto; ma, da solo, ti affermo, è impossibile che tu riesca. Non nasconderti più a' miei occhi; è inutile. Conosco troppo gli uomini e troppi ne ho veduti giungere al tuo segno. Quello che tu sei oggi, sono stato più volte io stesso, nella mia vita: ma non avevo i pregiudizi e per questo mi risollevai sempre. — Cosa chiami tu un pregiudizio? — feci, per un desiderio di laconismo. — Chiamo pregiudizio tutto quello che l'uomo non fa per timore dell'opinione altrui, ma che farebbe, quando avesse la certezza della impunità. Da questo immagina quanto la serie dei pregiudizi è grande. Io, vedi, li ho tutti esclusi: vi sono passato sopra, calpestandoli come fango; ciò nonostante — e forse ne stupirai — la coscienza non mi rimorde per nessuna fra le azioni che ho compiute in vita mia. — Si vede, — osservai ridendo — che nella tua casa la coscienza è un'inquilina poco importuna! — Non ho ancor fatto visita alla tua, però mi augurerei di trovarla così ben educata com'è la mia. — Dunque veniamo al fatto. — Piano, mio caro tu precipiti! Ho molte cose che debbo dirti prima. Intanto permettimi ch'io ti faccia un ritratto morale. — Volentieri, ma un'istantanea, ti prego, perchè odio la posa. — Oh, ti fermo sùbito alla tua prima dichiarazione! Tu non odii la posa, no, perchè anzi non v'è nulla di spontaneo, di naturale in te. L'abito che ti sei fatto è una maschera, simpatica se vuoi, di ottimo gusto se vuoi, ma una maschera in ogni modo. Senza questo atteggiamento la tua vita non avrebbe avuta una ragion d'essere. Con esso ti sei dato un carattere, una tua fisionomia. — E quale di grazia? — Petronius arbiter elegantiarum aveva meno tradizione, ma più tempra di te. Egli era un intellettuale ed un sensuale; tu non sei in fondo che un uomo profondamente corrotto. Egli era un amabile cinico, tu sei un cinico per svogliatezza. Egli sarebbe stato «l'arbiter» anche in una provincia barbara, o nel circo, tra gli schiavi, o nelle bettole della Suburra, perchè la sua professione di eleganza era in lui, più che un'abitudine oziosa, una convinzione, un bisogno, una bella e continua familiarità. Egli chiuse la sua vita con un gesto magnifico, e morì com'era vissuto, insegnando la sua serena indifferenza. Tu sei stato un arbitro finchè il denaro ti è bastato ad esserlo; ma oggi ti sprofondi nella mediocrità, e, tu per primo, ti riconosci un vinto. — Oh, insomma, che c'entro io con Petronio! Che c'entra Petronio con quello che mi devi dire? — Bene, se hai fretta, concludiamo. Io sono verboso; non è colpa mia. Il Padre Eterno, raccontano, con la parola creò la luce. — E tu? — Ed io ti dico: Caro Guelfo, mio buon amico, tu stai per andartene a picco. Sei, ti ripeto, un re senza terre, che s'incammina verso l'esilio. Ora, mentre da solo non hai l'audacia nè la forza di risorgere, un uomo ti si avvicina, e quest'uomo son io, il quale ti dice: «Vuoi ritentare la prova? Io possiedo per te qualche arma fatata.» Vediamo; cosa rispondi a quest'uomo? Lo guardai nel viso, a lungo, prima di parlare; poi dissi: — Gli domando anzitutto perchè m'aiuta. La sua generosità non mi è chiara. — Quello che a te serve, serve a me pure. Si tratta di un bene reciproco. — Allora domanderò a quest'uomo, — seguitai sorridendo, — quali siano le armi che possiede, o se non parli per caso di armi proibite, perchè io non vorrei ferirmi per voler ferire. — Dio sia lodato! — esclamò con sospiro. — Finalmente parli chiaro! Ecco, ti rispondo sùbito; armi sicure, precise, caute, al maneggio delle quali bisogna senza dubbio esser nati. — Allora comprenderai anche, — lo interruppi con una voce fredda, — come questi tornei sorpassino la mia destrezza e, se permetti, la mia coscienza. Egli, si accarezzò la barba con un gesto lento, guardandomi fisso, e mi rispose accentuando le parole: — Certo sorpassano la tua

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Argomenti: esordio ampolloso,    ottimo gusto

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