L'amore che torna di Guido da Verona pagina 35

Testo di pubblico dominio

Questo esempio di serena volontà umiliava un poco la mia naturale pigrizia, che aveva, come sola forza, una fiducia illimitata nel destino. Talora mi assalivano i più tristi pensieri, vedendo venir meno il denaro pervenutomi dall'ultima vendita delle mie terre; ma nello stesso tempo mi sembrava impossibile di dover giungere alla miseria, quasichè, dietro le mie spalle, invisibile, stesse a guardia un genio tutelare, che alla fine, in un modo qualsiasi, mi avrebbe ancora soccorso. A poco a poco la mia vita si era fatta monotona. Elena frequentava le sue lezioni, la mattina ed il pomeriggio; di sera per lo più, vinta dalla stanchezza, non amava uscire. Così mi rimanevano molte ore libere; mi alzavo tardi, andavo al Bosco o vagabondavo per le strade, guardando i negozi, gli equipaggi, la gente, invidiando tutti, amareggiandomi di tutto. Le idee più torbide si affacciavano al mio pensiero; Elena stessa mi pareva mutata. Oh, la primavera di Torre Guelfa, come già mi sembrava lontana! E talvolta guardavo Elena con un senso d'involontario sospetto. Il suo passo, i suoi gesti, anche la sua voce, forse per l'abitudine contratta nell'esercizio scenico, non avevano più quella semplicità fresca e nuova dei primi tempi, che ricordavo come in un sogno. Invece pensavo che presto avrebbe affrontata la scena; la luce della ribalta avrebbe offerto a mille sguardi estranei la sua desiderata bellezza; i giornali sarebbero stati pieni del suo nome, cartelli e manifesti l'avrebbero dappertutto raffigurata, e di lei, nelle cene galanti, si sarebbe discorso con spensierata licenza. Poi l'applauso, la possente ibrida voce delle tumultuose platee, sarebbe salito fino a lei, fino ad avvolgerla come in un álito di desiderio, come in una vampa di corruzione... E perchè dunque, un giorno, finalmente, non si sarebbe anch'ella stancata di vivere in disparte, per un uomo che più nulla poteva offrirle, neanche la gioia di rifugiarsi nella spensieratezza dell'amore, se anche questo mio grande amore si oscurava ormai di ombre angosciose? Così, quand'ella mi parlava con ardore de' suoi rapidi progressi, de' suoi futuri trionfi, un sorriso amaro passava su la mia bocca e provavo nell'anima un senso d'indefinibile paura. Que' suoi racconti avvenivano per lo più durante l'ora della colazione. Io silenzioso, ed ella gaia, loquace, mi narrava tutti gli avvenimenti più futili della scuola, e mi aveva così ben descritte le sue compagne, che ad una ad una quasi mi pareva di conoscerle tutte. Verso le cinque le andavo incontro, ed era questa l'ora migliore della mia giornata, poichè ci recavamo a far le piccole spese per la nostra casa, od a bere il tè nei ritrovi eleganti, od a passeggiare insieme fino allo scendere della sera. In quei momenti mi pareva ch'ella fosse ancor mia; per lei mi struggeva ora un amor triste e taciturno, che il dubbio d'una lontana rinunzia tormentava di oscure gelosie. Quanto più la vedevo salire, tranquilla e certa, per il suo cammino di luce, tanto più mi sentivo cadere dentro un abisso di tenebre, dal quale avrei cercato invano di riafferrare la sua bella immagine fuggitiva. Così qualche volta il mio amore diveniva crudele, sospettoso, violento: mi piaceva intiepidir la sua fede, smorzare le sue speranze, ferirla nell'orgoglio, per non lasciarle comprendere in quali angustie si dibattesse il mio spirito. Ella per contro era docile come non mai; si arrendeva indulgente alle ubbìe del mio carattere, perdonava l'asprezza della mia voce, calmava con miti sorrisi le mie repentine gelosie; ma la sua mitezza, la sua condiscendenza, la calma di quel sorriso indulgente, non erano per me che altrettante ferite, poichè infatti la sentivo troppo forte, e ciò mi dava ombra. Ogni giorno, vedendola uscire, mi pareva ch'ella se ne andasse a portar lontano, fra estranei, una parte di sè stessa, una parte che non mi avrebbe restituita mai più. Quest'amante singolare sapeva darmi ogni giorno una gioia ed un'angoscia nuove, perpetuando in me il dubbio, che sta nell'amore come il rimorso nell'anima. Spesso mi domandava quale risoluzione avessi presa per l'avvenire, incitandomi a non frapporre indugi dinanzi al tempo che fuggiva. E mi noverava molte cose alle quali avrei potuto dedicare i miei giorni, con una visione così pratica e semplice del lavoro che spesso ne rimanevo stupito. — Tu non puoi figurarti, — le rispondevo, — che sforzo terribile sia per un uomo della mia natura quello di ricominciar la vita, e ricominciarla per forza, senza un'attitudine, senza un vero ideale. — Certo, lo comprendo. Ma, se questo è necessario? Allora mi diffondevo in lunghi ragionamenti, che peccavano dalla base, appunto perchè io stesso ne intravvedevo la falsità. — Lavorare, tu dici? Ebbene, vediamo. Una volta dipingevo infatti, e con una certa valentìa. Ma son trascorsi tanti anni! Vuoi che ricominci ora? Dopo aver perduto il tempo nel quale forse mi sarei fatto un'artista, e quando a Parigi vi sono molti pittori di grande ingegno che appena si guadagnano il pane? Vuoi che tenti un commercio, un'industria qualsiasi? Mi mancano per ciò le conoscenze più elementari. Tu mi dirai che si possono imparare. Ed è vero; ma in quanto tempo? E i capitali? Dopo tutto, è inutile!... Credi, Elena, un Guelfo non apre bottega. — E con questi ragionamenti falsi ti condanni ad una passività oziosa, mentre invece dovresti pensare che a tutto v'è rimedio. — Infatti mi rimane ancora una strada. Conosco a Parigi molte persone autorevoli; per mezzo loro mi farò presentare in Borsa, otterrò credito, speculerò. — Ma, insomma, sono mesi ormai che accarezzi questa idea senza mai decidere nulla! Che aspetti ancora? — Non darti pensiero, Elena; oggi o domani comincerò. Oggi o domani... E intanto le settimane passavano, il denaro dileguava, l'inettitudine della mia vita si faceva più grande. In verità un giorno, incontrando Gualtiero Alessi, agente conosciutissimo alla Borsa di Parigi, ch'egli frequentava da vent'anni, gli avevo parlato delle mie risoluzioni, ma così distrattamente ch'egli pure mi rispose in modo assai vago: — Bene, quando vorrai.... Vieni da me. Combineremo. E tutto finì su queste parole. Che fare? Non ero avvezzo a chiedere; le cose più semplici mi parevano dure umiliazioni. Così, fra vani pensieri e lunghe ore d'inerzia, scorreva la mia vita novella, mentre di giorno in giorno andava in me nascendo un disprezzo immenso di me stesso. Avevo presa l'abitudine di uscir la sera, quando Elena si coricava di buon'ora, e frequentavo alcuni amici d'altri tempi, seguendoli senza voglia nelle loro scorrerìe per la città del piacere. Fra questi, mi avvenne una sera d'incontrare un uomo che tempo addietro mi aveva molto divertito ed incuriosito. Si chiamava Elia d'Hermòs, era d'origine albanese, o così almeno diceva, poichè la sua vita era tutta un mistero. Oltre la soglia dei quarant'anni, alto e magro, con una fina espressione di sarcasmo negli occhi arguti, il mento adorno d'una leggera barba color di rame, i capelli biondi, grigi su le tempie, l'andatura dinoccolata, le mosse un po' feline, mostrando della sua persona e de' suoi abiti una cura soverchia, quest'uomo era certo fra que' molti personaggi ambigui che Parigi alimenta nel suo grembo, e vorrei dir nel suo covo, riserbando un campo vastissimo alle lor arti oscure. Parlava male moltissime lingue, sapeva un po' di tutto senza nulla conoscere profondamente, aveva percorso il mondo intero e vissuto in ogni paese, conservando di tutti i popoli un segno caratteristico, senza palesemente appartenere ad alcuno. Il suo discorso era gaio, paradossale, volubile, quantunque in ogni parola si tradisse la profonda esperienza ch'egli aveva dell'uomo e delle sue passioni, della vita e de' suoi casi. Di lui si parlava molto come di un avventuriero, senz'attribuirgli alcun fatto preciso, e però lo frequentavano gli uomini del miglior ceto, faceva parte d'un Circolo di buon nome, qualche volta lo si

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Argomenti: grande amore,    grande ingegno,    sorriso amaro,    sforzo terribile,    disprezzo immenso

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