L'amore che torna di Guido da Verona pagina 12

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risposi abbassando gli occhi. — Del resto non si sposerà. — Questa è la tua opinione. Ma v'è un medico per tutte le giovinezze: il tempo. Rispondimi dunque. — Ebbene, sì, lo credo, — risposi affrettatamente. — E sei deciso in modo irrevocabile? — Sì, Fabio, con tutta la mia forza. — Su la tua parola d'onore? — E mi tese la mano. — Su la mia parola d'onore, Fabio. Allora divenne estremamente pallido, mi strinse forte la mano, mi parve che ne' suoi occhi fermi passasse un tremito impercettibile; poi disse con asprezza: — Ebbene, sia! VIII Erano circa le sei della sera quando giunsi all'albergo di Elena con la notizia gioconda nel cuore. Avevo tardato alcuni giorni ad annunziarle i miei propositi, perchè temevo ancora ch'ella rifiutasse. Ma quel giorno volevo dirle ch'ero vicino a sciogliermi da tutte le catene, che potevamo appartenerci, liberi e soli, andando per alcun tempo a chiudere il nostro amore nell'antica solitudine di Torre Guelfa. Salii frettolosamente le scale, battei due colpi rapidi alla sua porta: nessuno rispose. Allora sospinsi l'uscio ed entrai. La stanza era vuota; rimaneva nell'aria il profumo di lei come una presenza invisibile. — Uscita? — pensai. — E dove, a quest'ora? M'avanzai nella camera, lentamente, quasi per indovinare. Sopra un baule c'era un abito smesso; una camicetta di pizzo ed un manicotto in una scatola aperta. Su le coltri, nel guanciale, rimaneva il solco della sua persona, come se vi avesse giaciuto; a piè del letto era un cappello con due grandi ali bianche, ed un velo ancor appuntato all'intorno. Sopra la pettiniera, fra molti oggetti femminili, un telegramma lacerato a metà, l'altra metà a terra. Ebbi la tentazione di leggerlo, poi la cosa mi parve indiscreta. Ascoltai presso l'uscio: nessun rumore. Un poco arrossendo, quantunque non veduto, raccolsi le due carte lacere, le raccostai. Ma nella penombra del crepuscolo, dovetti avvicinarmi alla finestra e sollevare una tendina. Il telegramma era in tedesco e diceva: «Impossibile, cara. Duvally a Roma può provvedere, Franz.» Veniva da Berlino, con la data del giorno medesimo. Rimasi perplesso dapprima; lessi un'altra volta, più volte ancora. Mi sentii tutto rimescolare; poi macchinalmente riposi una metà del telegramma su la pettiniera, l'altra per terra, com'erano prima, esattamente. Scesi. Nell'atrio domandai al portiere: — E' molto che la signora è uscita? — Non saprei, signor conte, — mi rispose. — Non l'ho veduta passare. Uscii per istrada. La mia mente mi pareva chiusa in un cerchio doloroso, entro cui passavano torme di pensieri veloci, lontani fantasmi, fisionomie di persone straniere, inafferrabili. Era una serata chiara in quella mitezza dell'inverno romano. L'aria, tra bionda e rosea, pareva percorsa da un oscillar continuo di bagliori, che facevano splendere i lastricati, le vetrine, le chiostre dei lampioni, e lontano tutte le cupole, tutte le cose aeree. Mi trovai sul marciapiede, sperduto fra l'andirivieni continuo della gente; un senso di novità m'invase, come s'io fossi per la prima volta nella moltitudine di una città straniera, fra persone che avessero costumi, facoltà, istinti, piaceri e tristezze assolutamente diverse dalle mie. Le parole oscure, i nomi del telegramma, tornavano ad assediarmi la mente con una persistenza dolorosa. Infine m'accorsi ch'ero sempre lì, fermo, dinanzi all'albergo, su l'orlo del marciapiede, che molte persone mi urtavano passando, che un giornalaio ed un venditore di focacce andavano e tornavano sopra un intervallo di pochi passi, dinanzi a me. Una carrozza signorile passò: vidi la contessa di Casciano affacciarsi allo sportello; pur avendola guardata in viso, dimenticai di salutare. «Duvally a Roma può provvedere... — Duvally? Franz? Chi erano mai costoro? Ed Elena dov'era in quel mentre? Involontariamente il mio sguardo penetrò dentro quel formicolìo di persone, quasi per cercarla, per riconoscere di lontano l'alta e snella figura di lei, od il colore della sua gonna, od il mantello che usava portare. E mai come allora conobbi l'oppressione della folla, misurai l'implacabile indifferenza con cui si muove, si agita, si moltiplica, si muta, nascondendovi ciò che vi appartiene, mescendo le sue mille voci in un solo clamore, vasto e pressochè immobile. Chi erano mai questi uomini che le scrivevano familiarmente, che potevano «provvedere per lei?» Mi aveva dunque ingannato nell'affermarmi di non conoscere alcuno a Roma e ingannato ancor più nel raccontarmi la storia della sua vita. Ora mi dilettavo in pensieri di vendetta e di delicata ironia. Ero fermo sull'angolo di una strada, e l'avrei veduta giungere, così da un lato come dall'altro, senza tuttavia lasciarmi scorgere da lei. Volevo simulare una perfetta ignoranza, per mettere alla prova la sua doppiezza; d'altronde, con il possesso di questo nome, il giorno dopo avrei potuto scoprire facilmente chi fosse questo Duvally. Ma per la prima volta, pensando ad Elena, soffersi nel vedermi dominato da lei, provai sordamente la vergogna d'essere costretto a spiarla come un volgare amante od un burlesco marito che abbiano sentore d'infedeltà. Quel maestro fine di eleganze amatorie che stava in me per abitudine antica si divertì nel molestarmi con le più aspre ironie. Or pioveva per l'aria dorata un crepuscolo vaporoso, pieno di corruscamenti, quasi un fiorire vicino di stelle, con i presagi, nell'inverno, della imminente primavera. Quand'ecco, di lontano, intravvidi la figura di Elena. Veniva rasente il muro, con un passo rapido sebbene affaticato, non volgendo mai gli occhi alla strada nè alle vetrine. Camminava tenendo con una mano accostato ai fianchi un lembo del suo mantello, che le scendeva lungo la persona con poche pieghe simmetriche, delineando la forma del braccio ed oscillando all'incedere d'ogni passo. Nell'altra mano teneva una piccola borsa, ch'era una maglia d'oro tenuissima, con la cerniera lucente; ad ogni chiarità di vetrina la sua faccia e l'oro splendevano insieme. Molti si fermavano a guardarla; io stesso la contemplai con un senso di stupefazione. Due sfaccendati la seguivano, tenendosi per braccio, scambiando fra loro sorrisi e parole che parevan grossolane. Quand'ella entrò nell'albergo, i due si fermarono irresoluti. Allora, traversando la strada, entrai nell'atrio, dove molti forestieri qua e là seduti leggevano il Baedeker come si legge la Bibbia o nascondevano i nasi inforcati d'occhiali dietro l'edizioni ampie del New York Herald e del Times. Salii. Quand'ella intese picchiare, venne senza indugio ad aprirmi. — Sei già stato a cercarmi, non è vero? — disse tosto, posandomi le due mani su le spalle e baciandomi. — Sì, una mezz'ora fa, — risposi. Guardai distrattamente verso la pettiniera: il telegramma non v'era più. — Verso le cinque son uscita per prendere una boccata d'aria, — ella spiegò. — Mi doleva il capo: sono così stanca oggi! Di fatti era molto pallida; ne' suoi gesti medesimi v'era un certo abbandono; anche nel sorridere una specie di stanchezza. — Che hai? — feci amorevolmente. — Non so... — E pianissimo, sorridendo: — Sono stanca, molto stanca... Me lo disse vicino alla faccia, con le labbra che appena mi toccavano. Poi si mise davanti alla specchiera e con un pettine d'avorio cominciò a ravviarsi i capelli che le sfuggivano dietro la nuca. Io le sedetti accanto, e presi a giocherellare con i vari oggetti che ingombravano il vetro della pettiniera. — Dove sei stata? — le domandai con naturalezza. — Avevo alcune piccole commissioni, — rispose, continuando a pettinarsi. — Vedi: quel mazzo di nastri, una veletta, un paio di guanti... poi dovevo anche andare alla Posta. — Ma non ricevi le tue lettere all'albergo? — le domandai, fingendo di esaminare attentamente la sua scatola per la cipria, ch'era d'avorio con le iniziali ed una corona di smalto. — Non tutte, perchè non sapevo a quale albergo sarei scesa. La sua

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Argomenti: due mani,    carrozza signorile,    burlesco marito

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