L'amore che torna di Guido da Verona pagina 27

Testo di pubblico dominio

cuscini, ch'erano foderati d'una stoffa delicatissima dal colore un po' languido della rosa di gruogo. Rividi quel caminetto, con gli alari di bronzo, così minuscolo da parere costrutto per i piedi minuscoli d'una bambola di Norimberga, ed i bagliori delle coppe fiorentine che traboccavano di lilla profumato, e quel divano dov'ella era stesa, inerte, come per un supremo desiderio di pace. Mi parve ancora che dalle sue labbra uscisse il tremore di quell'ultima domanda: «Mi scriverai da Torre Guelfa?...» E scossi il capo con violenza per allontanare quel pensiero molesto. — Ti ha parlato di me? — domandai a Fabio. — Sì, vagamente. — Cosa ti ha detto? — Mi ha detto: Germano è malato. Lo sapete anche voi? — Sì, — risposi per consolarla. — Da qualche tempo si è fatto scontroso, pare alla ricerca di sè medesimo, soffre. — E che diceva Edoarda? — Edoarda scoteva il capo, forse indovinando la mia compassione. Si torceva le dita e pareva che avesse pianto ormai tutte le sue lagrime. Poi mi raccontò che le scrivevi quasi ogni giorno, che le parlavi molto a lungo della campagna... e non saresti ritornato per qualche tempo. — Infatti, non potrò tornare... — profferii a bassa voce, quasi arrendendomi ad una certezza intima. Lì presso era un sedile di corrosa pietra che i licheni macchiavano di segni bizzarri, simili a fiori verdastri. Fabio vi sedette con indolenza e volse lo sguardo in alto, per entro le foglie. Poi, dopo una lunga meditazione, prese a dirmi: — Tu m'hai chiesto un aiuto, che io non ti seppi rifiutare. Tuttavia, quando mi giunse a Roma la tua prima lettera, il coraggio mi venne meno. Pensai di frapporre ancora un indugio, nella speranza che dopo qualche tempo di convivenza con Elena, la tua passione fosse un poco scemata e forse tu potessi ragionare più freddamente. Sono partito da Roma, te lo confesso, cullandomi ancora in una vaga speranza. Invece ti ritrovo immutato, più pazzo che mai di questa donna, e vedo come finora tu non abbia rimediato a nulla, ma invece ti sii perduto nell'irriflessione di un amore che ti rovinerà. — Che vuoi? — gli risposi; — la mia volontà non può mutare; il resto non mi spaventa affatto. — Insomma cosa decidi? — egli domandò, guardandomi con una specie di affettuosa paura. — Quello che ti ho detto, Fabio. Se vuoi salvarmi non c'è che una strada. — Ma Edoarda potrebbe anche morirne! — egli mi suggerì, con la voce piena d'angoscia. Mi coversi la faccia istintivamente, e tacqui, parendomi che ogni risposta in quel momento fosse troppo crudele. — Tu non hai pensato a questo! — egli esclamò nervosamente. — L'amore, — balbettai dopo una pausa, — l'amore ha qualche volta fatto vivere, non credo abbia ucciso mai. Sono cose che si dicono! Egli mi fissò con uno sguardo lungo, senza rispondere. — Poi non c'è rimedio, ti ho detto. Non c'è rimedio! — ribattei con eccitazione. — Ecco: immagina di aver sete, una sete rabbiosa, e di vedere una bella fontana, limpida, là, dinanzi a te. E che tu voglia corrervi, ma ci sia frammezzo un campo di sterpi tenaci, i quali s'aggroviglino al tuo piede, t'inceppino e non ti lascino camminare, mentre la tua sete cresce, diventa un'angoscia, un furore... Ecco, mi trovo appunto così, non riesco a muovermi, vorrei con una falce farmi strada e passare. — Povero amico! — egli esclamò tristemente. — Anche tu mi fai pena. — Vedi, — continuai, ansimando forte, — io non sono un eroe: sono anzi un uomo comune, volgare, se preferisci. Queste rinunzie, questi grandi sacrifizi sono maggiori di me. Poi, si può commettere un errore nella vita, e portarne anche la pena; ma che si debba scontarlo con un supplizio di tutte le ore, senza rimedio e senza fine, questo non è ammissibile, non è neanche umano!... Un riso amaro gli contrasse la bocca sardonica, la sua fronte si rabbuiò, ma non rispose. — Ascoltami, — gli dissi andandogli più presso e parlandogli con voce affettuosa; — tu sei troppo sensibile, hai l'anima d'una suora di carità. Eppure, dimmi: se l'amore vero è quello che sa compiere un vero sacrifizio, perchè mai Edoarda non avrebbe questo coraggio per me? Quale gioia potrebbe ormai darle un amore ottenuto come un'elemosina? — Io credo infatti che avrà il coraggio di perderti, — rispose Fabio; — ma forse non troverà poi la forza per sopportare questo abbandono. — Ma no, Fabio: non credere! Io la conosco bene. L'amore di Edoarda è semplicemente una specie di manìa sentimentale. Io non sono per lei un amante, nè un fidanzato, nè un amico: sono semplicemente l'essere che la sua fantasia, per una scelta incomprensibile, ha voluto collocare al di sopra di tutte le cose. Edoarda non mi desidera nè coi sensi nè forse col cuore: mi desidera con l'immaginazione. Tutto il suo grande amore non è che una specie di ostinata e gelosa immaginazione. Tu la ritieni capace di compiere per me un vero sacrifizio? No, Fabio! Mai, se non costretta. Edoarda sa benissimo che non l'amo più. Mi conosce troppo e non s'inganna; credimi, non si può ingannare. Vede con esattezza quello che soffro da molti mesi e legge qualche volta nell'animo mio con una penetrazione che mi spaventa. L'amore che avevo per lei, Edoarda lo ha veduto spegnersi ora per ora. Ebbene, che farebbe un'altra donna, più fiera ed anche, lasciamelo dire, più generosa di lei? Certo si vergognerebbe d'accettare questa mia fredda pietà e, forse per ribellione, mi saprebbe odiare. Ma Edoarda no. Il suo tormento e la sua gioia son quelli di potermi dire ogni giorno: «Tu non mi ami più!...» e costringermi a contare le sue lacrime, od opprimermi con una infinità di cose meschine, o sedersi ancora su le mie ginocchia, per parlarmi di una volta, di una volta, di una volta... come si recita una tediosa litania. No, Fabio! Che l'amore possa talvolta essere crudele, brutale, iniquo, lo ammetto; ma che l'amore debba mostrarsi vile, mai! — E più crudele, secondo me, quest'analisi che ora tu fai, — rispose Fabio. — Del resto è naturale: contro il rimorso non v'è che l'ironia. Nessuno ha il coraggio di dire a sè medesimo: «Io sto compiendo un'azione davvero disonesta.» Su la faccia dell'erma lontana un occhio di sole rideva mutevolmente; un canto spiegato volava e trillava nel verde, mentre, vicini all'ora di mezzodì, gli sciami addensavano i loro turbinii su l'acqua iridata. Un lungo silenzio cadde fra noi, mentre tutto il mio mondo interiore pareva sopirsi e lentamente sperdersi nella grande pace meridiana. — Germano, — egli mi disse infine, con una voce in cui pareva tremasse il dolore di occulte lacrime, — tornerò domani a Roma per dire a Edoarda Laurenzano che non ti aspetti più. Le cose, gli uomini ed i sentimenti hanno tutti un loro inevitabile destino. — Grazie, Fabio, — gli risposi, tendendogli la mano. — Non ringraziarmi. Germano. Vado a portare la tua condanna e forse a distruggere un'anima. Pensa che nella vita potrebbe venire un'ora simile anche per te.... Per la prima volta sentii nella mia mano tremar la mano di quest'uomo forte, e vidi cadere una lacrima dalle sue ciglia ferme. Lì, nell'antica ombra di quella foresta, nel solenne patto concluso, finiva certamente un tempo irrevocabile della mia vita, e sentii con paura, nel recesso dell'anima, tremare vagamente il presagio di una sventura lontana. Camminammo ancora qualche tempo senza levare gli occhi, tacendo. Poi tornammo indietro, verso il coltivato bosco nel quale si promulgava il giardino. Allora Fabio si scosse, raddrizzò la bella persona e di nuovo il suo dolore si nascose dietro la maschera della sua costante ironia. — E tu che farai? — mi domandò, fermandosi ad un bivio di sentieri, ove con grande impeto il caprifoglio fioriva. — Chissà mai?... E del resto cosa importa? Non ho paura, Fabio! Non ho avuta mai paura della vita, io! — Sarai felice almeno? — egli domandò ancora, mentre con attenzione attorcigliava un ramo d'edera

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Argomenti: grande amore,    lungo silenzio,    supremo desiderio,    riso amaro,    grande impeto

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