L'amore che torna di Guido da Verona pagina 5

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minuscolo in segno di minaccia. — Ecco: sono venuta sùbito; mi sento ancora un po' turbata. Come fu dunque? Le tolsi un guanto, baciai quella morbida sua mano. — Come fu? ditemi, ditemi... — pregava con impazienza. Le raccontai la storia brevemente. Allora mi venne più presso, e posandomi entrambe le mani sul braccio mi domandò: — Perchè avete fatto questo? — Perchè l'altro mi dava noia. E' molto semplice. E perchè voglio che vi lascino stare. Non siete mia, lo so, ma non importa. Qualche volta penso quasi che lo siate. Del resto non val la pena che se ne parli più. Ella mi guardava co' suoi grandi occhi fermi, che le illuminavano tutta la faccia. Dalla veletta sollevata le sfuggivano alcune ciocche di capelli, prendendo in quella luce diffusa il color tizianesco del rame antico. Mi chinai su la sua bocca, per baciarla, e non osando ancora, mi indugiai a respirare nel suo respiro, a vivere nel cerchio della sua vita, con tale un turbamento che dovetti chiudere gli occhi. — Elena, rimanete a pranzo da me questa sera... — le dissi con desiderio e con paura. Ella si era intanto rivolta verso un gran vaso di lilla bianchi, e ne carezzava un ramo lentamente, abbassando la faccia, come per nascondere i suoi pensieri. — A pranzo? No, no, — rispose in fretta. — E' una promessa... e non la mantenete mai. — E' meglio di no. — Siate buona, Elena... Si china maggiormente sui lilla, senza rispondere: alcuni rami s'impigliano tra i suoi capelli. — Venite a sedervi qui, — le dico. Viene, lenta: si siede presso il fuoco; i lilla bianchi le hanno lasciato nel viso tutto il lor pallore. Tace, mi fissa; tace, contempla il fuoco; erra per la sua bocca un'espressione indefinibile di tristezza, poi si copre la faccia con i due palmi, forse perchè nasce in lei, come in me, senza volerlo, un bisogno irresistibile di pianto. E quando la interrogo, mi risponde con la voce rotta: — Perchè taccio? Non so... Mi sembra di sentirmi un poco male. — Che male? — Nessuno... tutti... la malinconia. Vi sono fiori all'intorno, traboccano da ogni vaso, mettono per la stanza una primavera che illanguidisce ai riverberi del fuoco. La sua pelliccia trema di riflessi continui su la spalliera d'un divano; per l'aria naviga una lenta soavità. Eppure a noi sembra di non poterci parlare. Le parole si avvicendano, rare, con fatica. — Dove siete stata oggi? — All'albergo tutto il giorno. — Che avete fatto? — Niente. — Avete letto? — No. — Scritto? — Nemmeno. — Mi volete un poco di bene? — Non so, non so... E scuote il capo, si copre di nuovo la faccia. Fra le sue dita scorre una lacrima, luccica un istante nel chiarore della fiamma, cade. Io m'inginocchio davanti a lei, prendendole i due polsi; ma subitamente mi respinge: — Lasciàtemi, lasciàtemi... Non voglio! Poi, dalla poltrona in cui sta rincantucciata, si leva d'improvviso e dice: — Vado via. Non posso più rimanere qui. Quasi ruvidamente la trattengo per una mano: — No! Sono io che non voglio! Allora mi guarda un momento e le rinasce su l'orlo dei labbri un ambiguo sorriso. — Penserete ch'io sia pazza, non è vero? — Lo sono più di voi, Elena; molto più! Non andate via. Ed ecco, ridendo, scuote la testa come per scacciarne la tristezza e segna con la mano intorno: — Perchè tutti questi fiori? — Per voi, per farvi un poco di festa. Ride più forte. — E le rose dell'altro... le rose del vostro avversario... la stessa cosa, non è vero? — Come volete, — rispondo, rabbuiandomi. — Può darsi che sia la stessa cosa. Come volete. Abbraccia tutti i fiori con un gesto largo e dice: — Belli! Poi, di sùbito, volgendosi a me, con la bocca schernevole: — Come sta la vostra fidanzata? — La mia... chi vi ha detto?... — esclamò impallidendo. — Come sta? — ella ripete, un po' convulsa. — Io non ho fidanzate, o per lo meno, ecco: non ne ho più. — Ah?... — Ma chi v'ha detto questo? Rapidamente allora si trae dalla cintura una lettera piegata in più doppi e me la mostra dicendo: — Questa lettera. — Non firmata, probabilmente. — Non firmata, infatti. — Posso leggerla? — Se volete. S'avvicina, la spiega e legge con me. Siamo entrambi con le spalle rivolte contro il caminetto; il suo dito scorre su la pagina sottolineando le righe di una calligrafia malsicura che appare manifestamente simulata. Dopo aver letto, io taccio un momento, poi le domando: — Quando avete ricevuto questa lettera? — Ieri. — E non mi avete detto nulla ieri? — No. — Per qual ragione? Mi sembraste anzi così allegra. — Certo; perchè no? — Ebbene: è la verità, o almeno una parte della verità, quella che tutti sanno. Ella intrecciava le dita insieme, poi le scioglieva, standovi attenta, come se quel lento gesto bastasse ad avvincere il suo pensiero. — Ed ora ditemi una cosa, — domandò. — Perchè me lo avete nascosto? — Se ve ne spiegassi la ragione, forse non credereste. — Forse. Ma ditela in ogni modo. — Ebbene, perchè sapevo, perchè speravo, che un giorno voi ed io si sarebbe riusciti a vivere insieme. Allora non volevo lasciarvi supporre che l'avessi abbandonata per causa vostra. — Oh!... — Ve l'ho premesso; non credereste. Ma è tuttavia così, proprio così. Ho doveri gravissimi verso questa fanciulla, e non li posso più compiere. Sono miserie che ho preferito nascondere. Ve l'avrei detto più tardi. — Per qual motivo non li potete più compiere? — Perchè in certi momenti mi pare quasi di odiarla. È crudele a dirsi, ma ora, da qualche tempo, i miei nervi non la sopportano più. — L'avete amata? — Mi è sembrato, una volta. — E lo sa? — Lo intuisce; ma finora non ho avuto il coraggio di farle questa confessione. Temo di vederla troppo soffrire. — Oh!... ma dunque le donne vi amano tutte così? — No, non scherzate! La cosa è troppo triste. — Io v'aiuterò, — ella disse gravemente, dopo una pausa. — A far cosa? — A compiere il vostro dovere. — Elena, vi ripeto, non burlatevi di me! — Non mi burlo affatto. Se questo che mi avete detto è vero, non esitate, non esitate un istante, perchè, Germano, la cosa più terribile al mondo è quella di aver fatto soffrire. E mi parve che un'ombra fugace passasse nel suo pallore. Le andai presso; raccolsi nelle mie mani le sue, come per meglio comunicarle il mio pensiero: — Elena, mi siete veramente un po' amica? Posso parlare con voi? Posso dirvi tutto? — Ma sì, certo, certo. Allora le raccontai la mia storia tristissima, le dissi di questo legame, contratto quasi involontariamente, e che diveniva ogni giorno più la catena insoffribile, il giogo sotto il quale avrebbero cercato invano di curvare la mia indipendenza. — Sapete, — le dicevo, — io mi domando sempre come avvenne. Furono gli amici, le circostanze, dovrei dire il destino, se vi credessi. Vivevo a quel tempo una vita fastosa, inutile, sfrenata, e c'era una fanciulla che mi amava, che professava per tutto quanto era mio una religione appassionata e silenziosa. Cominciarono alcuni amici con dirmi: «Sai, Guelfo, sarebbe quasi tempo che prendessi moglie anche tu. Una fanciulla che ti vuol bene, graziosa, enormemente ricca, senza parenti fuorchè una vecchia zia... ebbene, cosa puoi desiderare di meglio?» — «Di meglio che la mia libertà? — risposi. — Nulla!» — E nemmeno vi pensai. Ma, vedete, qualche volta nasce contro un uomo, per condurlo a commettere una sciocchezza, quasi una vera e propria congiura di piccoli avvenimenti, che più tardi non si ricordano nemmeno più. Io, che la conoscevo appena, ebbi da quel tempo frequentissime occasioni di vederla, e quando le parlavo, la sua faccia s'imbiancava come se le facessi male. Sapeva tutto di me; aveva letti alcuni miei libri di viaggi; possedeva un mio quadro di molti anni addietro, che si chiamava, mi ricordo: La svernata in Abbruzzo; insomma ella mi venne incontro come chi ha sete va incontro alla fontana. Questo non mi diede nessuna

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