L'amore che torna di Guido da Verona pagina 61

Testo di pubblico dominio

tutte le più piccole cose: mi sentii vacillare ad ogni passo, e giunsi con Elena fino alla soglia di casa. Clara ci aveva seguiti, ma non osava parlare. Stavo già sul pianerottolo, quand'ella mi disse timidamente: — Buon viaggio, signore. — Addio, — risposi senza volgermi, come se uscissi per una passeggiata. Poi m'avvidi che partivo per sempre, tornai indietro, le strinsi la mano, ben forte; vidi che aveva gli occhi pieni di lacrime, ed anch'io, sentendo che le mie ciglia s'inumidivano, rivolsi la faccia in fretta. Ella rimase in alto e guardò giù dalla ringhiera. Mentre passavamo, il portinaio venne a salutarmi. — Parte il signore? — Sì. — Vogliono una vettura? — No, grazie. E ci trovammo fuori, sul marciapiede, fra molta gente che passava rapida. Mi parve che la strada quel giorno, avesse una fisonomia del tutto insolita. Elena teneva la faccia così china che non riuscivo a guardarla negli occhi. La presi a braccio e camminammo rasente i muri, angosciati, eppure insensibili. Tutte le cose circostanti attraevano il mio pensiero, molto lontano, fuori dalla realtà. Passava un cavallo, e pensavo la storia di quel cavallo, zoppicante sul lastricato tutto il giorno; la storia del suo cocchiere, della sua posta; pensavo ad altri cocchieri, li vedevo incrociarsi urlando, facendo schioccar le fruste, rassegnati e grotteschi; mi parevano cose, non uomini, — cose più miserevoli del loro cavallo. Passava un soldato, e pensavo le caserme, le riviste, le uniformi, le osterie dove si andavano ad ubbriacare, le case turpi ove trascinavano le lor sciabole rumorose; passava una donna giovine, bella, e pensavo all'amante che l'aspettava in una casa recondita, — una donna brutta, povera, e pensavo alle camere buie, dove i bimbi strillavano, mentre il marito le appestava l'aria con la sua pipa nera di acre tabacco.... E tutte queste visioni riddavano sopra uno sfondo di dolore immenso, ch'era il mio stesso dolore. Di quando in quando una lucidezza terribile mi feriva la mente, e sentivo tutti i miei nervi contorcersi fino allo spasimo. D'un tratto Elena si fermò, poggiandosi contro il mio braccio con entrambe le mani, che si contrassero. — Non posso più camminare... — mi disse con un alito. — Chiama una vettura. Ne passava una; la fermai; vi salimmo. Intorno, per la via popolosa, le vetrine fiammeggiavano, imbiancando i marciapiedi; le carrozze lente, in più file, ogni tanto sostavano per dare il varco alla gente. Rincantucciati nella vettura buia, l'uno contro l'altra, tenendoci le mani, ebbi voglia che il cavalluccio continuasse indefinitamente il suo trotterello stanco, per non giungere mai, per non scendere più. — Ti senti male? — domandai. — No, è stato un momento... nulla. Ora passa... passerà. Le cinsi con un braccio le spalle, delicatamente, come se il mio amore potesse guarirla. Ella si rannicchiò al mio fianco, facendosi piccola, con un movimento pieno di paura. — Mi scriverai? — Sì, amore. — Ogni giorno? — Se vuoi... — E tutto mi scriverai? — Tutto... sì, tutto. — Fin quando? Ella fece un vago segno, come per dire: — Chissà? — Io lo so fin quando... — risposi. — Lo sai? — Sì. E sorridevo; mi pareva d'intravvedere una felicità. — Dillo. — Fino al giorno in cui ti scriverò: «Domani ritorno.» — Oh... — ella fece, con un gesto d'incredula rassegnazione. — Ricordati una cosa, Elena; sarò capace di tutto per tornare a te. Intendi bene: di tutto! — E v'era nella mia voce una fermezza così certa, ch'ella si volse a guardarmi, poi si ristrinse di nuovo contro la mia spalla, senza rispondere. — Senti, — le dissi, — nel piccolo scrignetto ove tieni le tue gioie, ho lasciato il denaro che avevo. Appena mi sarà possibile te ne manderò altro da Roma. — Oh, perchè hai fatto questo! — esclamò ritraendosi. — Te lo rispedirò sùbito. — Sarebbe offendermi, Elena; e spero che non lo farai. A Roma troverò sùbito quanto mi occorre; tu invece potresti averne bisogno. Prométtimi... Leggermente mi strinse una mano, e, dopo un silenzio: — Sei buono con me, — rispose. — Dimmi ora una cosa... ora che vado via, — domandai sottovoce. — Mi hai voluto bene? bene davvero? Non l'ho compreso mai. Appoggiò i gomiti su le ginocchia e si prese la fronte fra le mani, senza rispondere. Nel sollevarle il volto, sentii ch'era intriso di lacrime. — Non me lo vuoi dire? — E tu? — fece con angoscia; — e tu? — Io?... sei stata la sola cosa che abbia mai adorata nel mondo... la sola; e non ti potrò dimenticare finchè vivo. — Perchè mi lasci allora? — domandò con una voce sorda, — quasi violenta. — Sei tu che hai voluto, Elena. E poi... Rise, rise forte, come se avesse nell'anima una ilarità crudele. — Ah sì... sono io! sono io! — esclamò, crollando il capo con veemenza. — Io sola! E poichè la stazione appariva lontana, tra un chiarore nebbioso di lampioni, ci abbracciammo con tutta la forza delle nostre braccia, con tutto lo spasimo che torceva le nostre anime. Scendemmo; andai a prendere il biglietto, a spedire il bagaglio; e le mani ad ogni gesto mi tremavano come se una crescente febbre consumasse le mie vene. Mancava una ventina di minuti alla partenza; nella sala d'aspetto c'era un angolo semibuio; vi andammo a sedere. Mi ricordo che un vecchio viaggiatore, con uno scialle indosso, camminava avanti, indietro, ed i suoi passi facevano un rumore pesante nel silenzio della sala. C'era una monaca, dalla faccia pura e delicata fra i suoi lini bianchi, la quale sedeva immobile sul divano di velluto, poco lontano da noi. S'era spenta una lampadina elettrica ed un uomo, in camiciotto di tela, salito sopra una tavola, stava cambiandola. Tutti, sonnacchiosi, guardavano al suo lavoro. — Oh, se tu potessi partire con me! — le dissi piano, all'orecchio. Non piangeva; era muta, ferma, assiderata quasi da una specie d'insensibilità. Aveva sollevato il velo a mezzo il volto, e questo velo nero le s'increspava come il pizzo d'una maschera sopra la bocca smorta. Ogni tanto rideva, di un riso atono, ed una contrazione interiore le metteva un sussulto alla sommità del petto. Mi sentivo a poco a poco vincere da una specie di oblìo, ch'era come la distruzione del dolore, la sofferenza infinita, che non soffre più. L'avevo amata immensamente, golosamente, dando a lei sola tutte le passioni ch'erano rimaste aride nel mio passante cuore, a lei sola tutto il profumo che mi aveva profuso nell'anima questo ritorno della primavera, e lo sapevo in quell'ora ultima, senza rimedio e senza pace. Volevo dirle infinite cose: non c'era più tempo, non c'erano più parole. Volevo cadere a ginocchi davanti a lei, o prenderla con violenza fra le mie braccia, o gridare, o farmi e farle del male; ma non sapevo in che modo vincere la fatica dell'interiore mio silenzio, la paura che mi colmava le vene con un senso di fragorosa vacuità, mentre i miei occhi la fissavano senza mai abbandonarla, quasi per imprimere l'ultima bellezza del suo volto nella profonda ombra del mio dolore che partiva. Un impiegato s'affacciò alla porta e cantilenando si mise a ripetere gli arrivi, le partenze dei treni. Ci levammo; nell'angolo semibuio, sotto il velo umido, la baciai col mio dolore come non l'avevo ancor mai baciata. Sentii che il peso leggero del suo corpo si abbandonava nelle mie braccia, simile ad una cosa morta, e la sua bocca, e le sue mani, ed anche il suo respiro, tutto era freddo in lei, come se non avesse più sangue. — Anima... anima mia... — le volli dire, o le dissi. Ella si levò dalla cintura, di sotto il mantello, un mazzo di viole fresche. — Tieni, — balbettò; — non posso darti altro: le ho prese per te. Baciai la sua bocca, le viole insieme; ravvolsi quel mazzo nella carta velina che ne fasciava gli steli, e ci avviammo. — Ritornerò, ritornerò... — mormoravo camminandole accanto. — Aspéttami, Elena... tornerò súbito. Ed il rumore de' miei passi

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Argomenti: velo nero,    movimento pieno,    lucidezza terribile,    chiarore nebbioso,    contrazione interiore

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