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L'amore che torna di Guido da Verona pagina 34nè con rispetto. Costoro avrebbero riso. E mi pareva di vedere molte bocche ridere, mi pareva di udire i maligni commenti. Oh, mai come in quell'ora mi sembrò di conoscere il mondo in cui ero vissuto, e mai con maggior tristezza rimpiansi la mia vita sprecata in mille vanità passeggere, lembo a lembo, fra le gioie più sterili!... Così pensando, imparavo a disprezzarmi: un sentimento questo che non avevo conosciuto ancora. Edoarda invece mi appariva come una immagine del tutto lontana, perduta fra le memorie di un'altra vita, pressochè scomparsa. I miei nervi si erano talmente avvezzi a ribellarsi contro di lei, che ora, d'un tratto, si sentivano come rappacificati. Ella era uscita dal mio cuore senza lasciarvi un solco, senza imprimervi una memoria, senza condannarmi ad un qualsiasi rimpianto. Elena invece m'inebbriava del suo fresco amore. Ogni giorno mi pareva di scendere più profondamente nel mistero della sua dolce anima. — Non puoi credere — mi diceva spesso, — come adoro questa campagna, questa casa ed i giorni che passiamo qui. Talvolta, la sera, ella si lasciava prendere da una specie di malinconia; parlava con voce affaticata, senza guardarmi, quasi perduta in un sogno, e mi diceva: — No, tu non puoi comprendermi, Germano. Vi sono troppe cose che tu non puoi comprendere. Vedi: quando si è trascorsa una vita nomade come la mia, quando si è stata una donna senza legge e senza meta, di paese in paese, tra una folla d'estranei, in balìa di tutte le sorti, quando ci si è trovati fin dalla più lontana giovinezza senza una famiglia nè un tetto nè un amore nè una felicità qualsiasi nella vita, tu non puoi comprendere come di tanto in tanto si provi un bisogno infinito di riposare, di vivere più presso alla natura, a questa grande madre che rende la gioventù e la purezza dell'anima. E allora una grave ombra le scendeva su la fronte china; le brillava tra le ciglia una lacrima silenziosa. — Io — seguitava — son tra quelle anime che non possono mai ambire al destino degli altri, ma devono perpetuamente andar oltre, andar lontano, andar via, come il vento, come la nebbia, come il fiume, come tutte le cose che passano... E vi sono migliaia d'anime destinate a questo inutile pellegrinaggio. Così l'amore nostro si velava insieme d'incertezza e di ombre. L'estate passò; venne l'autunno, con le sue feste di pampini, con le sue nebbie ottobrali. Le sere si fecero fredde, i grossi tizzoni arsero scoppiettando nel grande camino di Torre Guelfa, ove s'erano scaldati pigramente, nelle serate cupe del Medio Evo, i miei padri lontani. E venne anche la noia, l'insidiosa nemica di tutti gli amori, che cammina insieme con la solitudine, con il silenzio, con la polvere, nelle grandi case abbandonate. L'inverno, tra quelle fosche mura, sarebbe stato pieno di malinconia. Che risolvere? Non avevamo denaro per andarcene al Cairo, in Riviera, od altrove, tra la gente gaia. Bisognava nondimeno prendere una decisione seria, perchè la nostra vita era tutta in balìa d'un precario destino. Le mie scarse rendite eran quasi del tutto assorbite dagli interessi di alcuni debiti gravosi, ed esaurito il credito, non mi rimaneva che vender Torre Guelfa con le campagne circostanti, e contentarmi di una meschinissima vita. Sarebbe stato così l'ultimo colpo dato nel tronco secolare della mia casa, il dividermi da tutte le fierezze ch'erano state il mio vanto, il rinunziare per sempre alla speranza di un secondo apogeo. No, questo mai! Piuttosto morirvi, su quel lembo di terra ch'era stato un feudo immenso, e non vedere altra gente all'ombra di quella vecchia Torre, dove, dal culmine, si guardava il mare. Fosca, selvaggia, nera di feritoie oblique, come un tragico avanzo di battaglie antiche, portava in alto il grande scudo marmoreo dei Materdomini, con il bel motto scolpito: Placet, si vis, Domine. Ed ognuno dei nati nella mia gente doveva, per eredità di sangue, morire prima di vederne la rovina: ognuno doveva credere in quel motto come in una fede suprema. Tutte le avventure mi convenivano, tranne quella che mi avesse a dividere dalla memoria del mio casato. Lunghe sere noi passammo accanto al fuoco, ragionando su l'opportunità migliore. Elena mi diceva: — Non pensare a me. Ho finalmente presa la mia risoluzione: andremo a Parigi, diverrò attrice, guadagnerò molto denaro. Questo era sempre il suo grande sogno. Me ne aveva parlato le prime volte con titubanza, poi con fermezza, nè io credevo di poter ostacolare il suo proposito, perchè non avevo alcun avvenire da offrirle. Io medesimo, giunto verso i trentaquattr'anni e perdute ormai quelle temerarie illusioni che rendon facile ogni strada sul fiorire della giovinezza, mi trovavo nella dura necessità di ricominciare la mia vita, con altrettanta parsimonia quanto ero stato prodigo e spensierato, uscir dalla lunga pigrizia per sottomettermi ad un qualsiasi mestiere lucroso, mentre il mio solo studio fino a quel tempo non era stato che di godere la maggior allegrezza nell'ora fugace. Il passo in fondo non era facile nè breve. Poi, quante fierezze da scordare, quanti altari da cui scendere! Mi avveniva di rimanere per lunghe ore perplesso e trasognato, pensando al mio tempo trascorso, quando la sorte, con munificenza incalcolabile, mi aveva dato in possesso i migliori suoi doni ed offerta la possibilità di ambire a qualsiasi destino. Invece quanta cenere, quanto inutile spreco! E rivedevo le mie terre, cento volte più vaste che non si possa con uno sguardo abbracciare, pezzo a pezzo vendute, o cadute in possesso dell'usuraio, che ora, quasi per insidiarmi fin nell'ultimo riparo, stendeva la mano rapace su le campagne intorno a Torre Guelfa, pronto forse un giorno a cacciarmi dal mio tetto, per condurre la sua vita opulenta e laida in quel feudo che aveva la sua storia scritta a lettere d'oro nelle cronache di Roma. Allora m'appigliai ad una risoluzione improvvisa. Feci chiudere la casa di Roma, vendetti una piccola terra, vicino a quella di Monte San Biagio, per avere il denaro che mi urgeva, e decidemmo di andar a Parigi, dove la sorte ci avrebbe forse aiutati. Nella grande città di gioia, libera e maravigliosa, dove tutte le passioni umane sembrano accendersi d'un più selvaggio ardore, ella voleva essere attrice, io volevo con ogni mezzo affrettare il compiersi della mia sorte. Forse intraprendere un commercio, forse affidarmi all'alea della speculazione, o forse, con uno stratagemma usato a me stesso, volevo semplicemente arretrare d'un passo davanti allo spettro della rovina imminente. Avevo ancora una fede cieca nella clemenza della fortuna, e partendo guardavo con occhi sereni, su la torre di Torre Guelfa, il bel motto scolpito nello scudo. E il motto diceva: Placet, si vis, Domine. I A Parigi, dopo alcune settimane trascorse all'albergo, affittammo nel quartiere dell'«Etoile» un grazioso appartamento, che si apriva su la via dell'«Arc de Triomphe». La nostra vita, nei primi tempi, fu tutta spensieratezza e gioia. Di giorno, cavalcate al Bosco, passeggiate in vettura, soste negli ippodromi; la sera balli e teatri, visite ai ritrovi mondani, fra quella turba cosmopolita che versa inconsideratamente nella centrica Parigi l'oro guadagnato ai quattro canti della terra, e tutti i giorni si muta, più festevole e più pazza, dando l'idea d'una Babele novissima, dove gli uomini più diversi convengano insieme ad una perpetua gozzoviglia. Durò così per oltre un mese, fin quando Elena si accinse a frequentare una scuola drammatica. In quei tempi una grande attrice, stanca di calcar le scene, si era data all'insegnamento, aprendo una scuola di recitazione dove accoglieva soltanto alunne che fossero nuove al teatro, ed alle migliori di esse prometteva un adito immediato su le più grandi scene parigine. Tosto Elena, entrata in favore della maestra, cominciò a frequentar assiduamente la scuola, e si pose all'opera con tanto amore, che ogni altro pensiero fu escluso dalla sua mente. 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