L'amore che torna di Guido da Verona pagina 25

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dissi, — ed invece.... — Ma il tempo vola, e non si può nulla contro il tempo. — Sì, una cosa... — osservai. — Quale? — Amarsi, amarsi. Elena! Eravamo giunti. Tre o quattro vagabondi che oziavano accorsero insieme, ingiuriandosi, per tenere la briglia. Siccome a Terracina era giorno di mercato, molte persone, quasi tutti mercanti e sensali, ingombravano l'atrio della stazione. Alcuni d'essi mi salutarono, guardandoci maravigliati. Una comitiva d'Inglesi accampava tra i suoi molteplici bagagli, di ritorno forse da una gita a Monte Circello. — Quanti giorni rimarrà quel tuo amico? — Elena mi domandò, appoggiandosi al mio braccio. — Due giorni al massimo, — risposi. — Almeno lo spero; è un uomo discreto. Un campanello squillò, senza interrompersi, tra i viluppi dei fili elettrici, sotto la tettoia; l'arrivo del treno era imminente. In quel mentre un giovine alto, bruno, vestito con una giubba di frustagno, passò davanti a noi, salutandomi con un sorriso dal quale traspariva una specie di sottile derisione. — Buon giorno, signor conte, — egli disse fermandosi e buttando via il sigaro che masticava tra i denti. — Le annunzio la visita di mio padre per dopodomani. — Che vuole vostro padre? — gli domandai, un po' tediato. — Non so. Credo sia per la solita faccenda... l'ipoteca. — Ah!... bene. Ditegli che non venga prima di giovedì, perchè aspetto un amico e non sarò libero fino allora. — Glielo dirò, signor conte, — rispose il giovine con una ironia garbata. Fece un altro saluto, e se ne andò a discorrere fra i mercanti. — È uno dei Rossengo, — spiegai ad Elena sottovoce. — In quell'abito? — ella esclamò, incredula. — Ti pare strano, è vero? Ma son usurai di campagna; il vecchio è milionario. Mentre camminavano avanti e indietro, il gruppo dei campagnoli, con il Rossengo fra essi, ci osservava e ciarlava di noi curiosamente. Immaginavo le parole ch'essi dicevano fra quello strepito di risa grossolane, mi pareva di udirli ragionare de' miei dissesti e della donna ch'era meco. Mi prese una collera sorda, pensando che forse, fra qualche tempo, quei Rossengo, sensali e mercanti di bestiame, i quali avevano un nonno ciabattino ed una madre guattera, sarebbero divenuti padroni delle terre che da tanti secoli appartenevano alla mia famiglia. E per la prima volta, io, che avevo portato con tanta fierezza il mio nome, sentii quasi l'imperioso bisogno di nascondermi davanti a quei servi. Sopraggiunse il treno, troncando i miei pensieri; Fabio, tra i primi, saltò giù da una vettura, bestemmiando contro i ritardi dei treni e la canzonatura degli orari. Portava una borsa foderata d'una tela greggia, di colore identico a quella della sua spolverina da viaggio. Lo presentai ad Elena. — Veramente, signora, — egli disse con un leggero inchino, — io vi conosco e voi conoscete me da lungo tempo. Siamo due stranieri, amici d'un comune amico intimo. E sorrise di quel sorriso arguto, che illuminava simpaticamente la sua faccia un po' rude. Usciti su la piazza, ci serrammo tutti e tre nel barroccio angusto; quando la borsa fu legata dietro, diedi un colpo di frusta e la cavalla partì di buon trotto. — Che delizia poter fumare! — esclamò Fabio, accendendo una sigaretta. E spiegò: — A Cisterna è salita una signora la quale non poteva sopportare il fumo. Poverina! Ed era uno scompartimento per fumatori. — Fumate molto anche voi? Come Germano? — Elena gli domandò. — Più di Germano, signora. Io possiedo tutti i vizi al massimo grado. Fumo enormemente, bevo molto vino, molti liquori, amo le rarità gastronomiche tanto quanto le rarità femminili, giuoco a tutti i giuochi, bestemmio per abitudine come ogni buon napoletano, son pigro, maligno, dispettoso, impaziente... una vera persona insopportabile, signora mia! — E null'altro? — esclamò Elena, ridendo. — Sì, ancora una cosa, — io dissi. — E un cuore da monachella sotto le spoglie d'un tiranno da commedia. — Ahimè!... — egli fece traendo un gran sospiro, — come sono triste qui! Terracina mi evoca tante belle memorie! Non vi accorgete, signora, della mia tristezza? — Me ne accorgo adesso che voi me lo dite, — ella rispose con allegria. — Lassù, in alto, sopra il Taglio di Prisco Montano, c'è un eremo che io ben conosco, il quale mi ricorda un mio grande amore... — disse Fabio pateticamente, accennando con una mano al valico della via Appia. — Ma quando sei stato qui? — gli domandai. — Sette anni or sono, ai tempi di Emilia Gonzales; ti ricordi? — Oh, mi ricordo! È stata forse la più seria delle sue molte avventure, — spiegai ad Elena. — Era un'attrice, bellissima. — Povera Emilia, com'è finita male! — esclamò il Capuano. — L'hanno uccisa, è vero? — Sì, al Messico, un primo attore, per gelosia. — E come mai siete capitati a Terracina? — Dopo la sua malattia girammo un po' dappertutto, alla ventura. Diceva di avere la nostalgia dell'antico, del rovinoso, la nostalgia delle cose cadenti.... — Era una buona compagna, — io rammentai, — quantunque avesse il difetto di essere troppo sentimentale e troppo intellettuale. — Oh, ne aveva molti altri... però moltissimi pregi anche. Non posso mai dimenticare la sua voce: pareva un suono d'arpa, delizioso. Parlava un dolcissimo fiorentino, per quanto fosse padovana; quando non discuteva di belle arti era una donna incantevole. — E quell'altra sua manìa... te ne ricordi? — Già, la manìa dell'isterismo. Si era fatta uno sguardo isterico, dava la mano, camminava, baciava, con una languidezza di moribonda... e mi faceva spendere il denaro con un furore veramente isterico! Elena dette una risata per questa imprevedibile sua conclusione. — Voi siete un giudice molto imparziale dei vostri amori, — disse al Capuano. — Che volete mai? Sto diventando bianco. Ora si andava tra le gole di montagne, alte e scoscese, per mezzo inselvate, per mezzo scabre. Nell'aria color di cenere passavano i primi brividi della sera. — Pensa! — io dissi a Fabio; — più di duemil'anni or sono, fra queste gole di monte, un uomo che portava il tuo nome sbarrò il passo al grande Annibale. Tu non sei Fabio Massimo, sei però Fabio il Temporeggiatore. Egli sorrise dell'allusione velata, ma cercò di eludere il discorso. — Duemil'anni di storia!... — esclamò. — E noi qualche volta troviamo lunga un'ora! Immobile, fra la corona delle sue folte boscaglie, apparve il lago di Fondi, cupo e taciturno come una palude stregata, che alitava in quell'ora d'innumerevoli sciami. E finalmente la Torre del Canneto, la Torre dell'Epitaffio, la Torre dei Confini, il villaggio di Monte San Biagio, e di fronte, con la vetta in gloria per un'apoteosi di sole, unica, possente, splendida, la Montagna delle Fate. — Guardate ora! — esclamò Elena, tendendo il braccio verso il declivio della montagna. — Guardate: Torre Guelfa è là! III Elena, semivestita, versava gocce d'essenza di rosa nei catini pieni; poi si passava il pettine nei capelli sciolti, e andava, trascinando le pianelle, a comporre in leggiadrissime gale i nastri delle biancherie che aveva preparate sul letto. Portava una vestaglia di color roseo, quasi trasparente, ornata di trine; le finestre erano aperte, ella era fresca come la primavera. Camminava per la camera, qua e là, facendo mille cose minute; ogni volta, nel passarmi accanto, mi dava un bacio su la bocca. — Senti, — mi disse piano, abbracciandomi, — vorrei che di nuovo rimanessimo qui soli, noi due. — Forse domani Fabio partirà, — le risposi. — Te lo ha detto? No, ma lo immàgino: ha portato solamente una borsa. — Eh!... non hai veduto com'è grande? Io risi; ella si raccolse in ciascuna mano una grossa treccia dei capelli che le cadevano partitamente sul petto, e me ne ricinse il collo, in tal guisa, che le sue braccia ed i suoi capelli profumati formavano insieme una sola catena. Rideva, con le labbra rosse, la gola

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