L'amore che torna di Guido da Verona pagina 8

Testo di pubblico dominio

egoismo, in cerca di placar la voce del rimorso, e mi sconfortò la sofferenza che tremava nella stanchezza di quegli occhi mansueti. Ebbi ancora bisogno di essere dolce con lei, di rivolgerle una parola buona. Le dissi piano: — Tu non sai come soffro nel vederti così... Su la sua povera bocca, ne' suoi tristissimi occhi azzurri, brillò rapidamente una luce che non parve sorriso, ma fu come un segno di sconforto inutile, di rassegnazione stanca. E soggiunsi più forte: — Voi non mangiate nulla; perchè? Vi ammalerete, Edoarda. La zia tentennò il capo, guardandola: trasse un lungo sospiro e mormorò: — Benedetta ragazza! benedetta! Edoarda non cessava tuttavia dal circondarmi di tante piccole premure. Senza volerlo, come in forza d'una abitudine antica, il suo sguardo ricorreva sempre alla mia persona, temendo che potessi avere un desiderio qualsiasi, o che alcuna cosa non fosse abbastanza curata per me. Faceva segno al domestico di versarmi vino se appena il mio calice era vuoto; una volta, non avendo più pane, feci atto di domandarne: rapida, ella mi diede il suo pane, intatto — e sorrise perchè le sorrisi. Mi salì nella mente una frase che un giorno le avevo scritta: «La tua anima è come una lampada votiva: non si stanca mai di ardere, tutelando la mia pace». Questa immagine funeraria non mi era mai sembrata così vera come in quel giorno. Parlammo ancora, di cose non gravi. A poco a poco la zia, commossa dalle mie gentilezze, dimenticava di essermi ostile, con la solita indulgenza del suo carattere. Anche Edoarda pareva un poco sollevarsi dalla sua prostrazione, e Whisky, accucciato su le mie ginocchia, di tanto in tanto faceva capolino col musetto su l'orlo della tavola per lambirmi l'orlo del piatto; se io ridendo lo battevo leggermente, allora mi fissava con impertinenza e mi abbaiava contro, quasi maravigliandosi della mia tracotanza. Dall'insieme di questi e d'altri piccoli fatti compresi come un poco di destrezza e di buon volere da parte mia sarebbero stati più che sufficienti a riparare senz'altro l'accaduto. Ma questo pensiero mi dispiacque, poichè vedevo per esso come tutti eran ancor lontani dall'ammettere la possibilità della mia scomparsa da quella casa, ove, allo spirare d'un lutto, avrei dovuto entrare, fra un'allegrezza di sponsali, riaprendo a conviti e feste le sale da lunghi anni taciturne. La colazione era finita. Edoarda si levò in silenzio, andò a prendere le sigarette che amava comprarmi e scegliermi ella stessa; portò anche una scatola in cui erano alcuni sigari prelibati: me li offerse tacitamente, senza guardarmi, però mettendo una infinita cura nel toccare le cose che per sua volontà mi appartenevano, cose che adoperavo io solo. Erano le scatole mie: nessuno le doveva nemmeno aprire. Per gl'invitati ve n'erano altre; anche il domestico lo sapeva, e guai se non ne avesse tenuto conto! Così, quand'io venivo, Edoarda faceva ella stessa il caffè, in una macchina di rame a filtro, e c'erano per lei e per me due piccole chicchere uguali, d'una porcellana tenue come la madreperla. Quelle servivano per noi, solo per noi. La zia, siccome beveva troppo caffè, aveva una sua chicchera più grande. E così fu pure quel giorno, per un tacito volere di Edoarda. La zia poi tornava nella sala, fra le braccia della sua vasta poltrona, e bisognava lasciarla tranquilla per qualche ora. Sorbiva con delizia un bicchierino di liquore, due talvolta, poi pretendeva di leggere un giornale, a diritto, a rovescio, finchè le scivolasse di mano, — e s'addormentava. C'erano, dopo il salone, due sale minori e contigue, di cui la prima conteneva una rarissima collezione di statuette di Saxe e di bronzi antichi, l'altra, secondo il volere di Edoarda, era la nostra — esclusivamente nostra. Colà passavamo lunghe ore del giorno e della sera durante i pisoli della zia, la quale talvolta, svegliandosi di soprassalto, chiamava con voce grossa: — Edoarda! non dormo, sai... Potreste anche venire di qua. Ma era inutile muoversi, perchè avevo spiegato a Edoarda che si trattava semplicemente di un sogno fatto ad alta voce, una frase che la zia per abitudine aveva imparato a dire anche dormendo. Quel giorno, quand'ella fu nella sua poltrona, fra le cuffie di lana per «I Figli della Provvidenza», il suo bicchierino ed il giornale, noi scendemmo a visitare il cavallo. Whisky ci seguiva saltellando e scodinzolando. Nella scuderia Edoarda staccò ella stessa il cavallo malato, poi lo condusse fuori nella corte, ove il cocchiere lo prese a mano per farlo muovere, al passo, al trotto, davanti a noi. Era un superbo irlandese, dal mantello sauro focato, con le zampe calzate di altissime balzane. — Povero Good Bye! Vedi come zoppica! — esclamò Edoarda. Lo feci fermare, gli sollevai la zampa, esaminai lo zoccolo, feci scorrere le dita, premendo lungo i tendini del garretto, e l'animale non dava il più piccolo segno di dolore. — Quando lo avete attaccato l'ultima volta? — domandai al cocchiere. — Tre giorni fa, signor conte. Trottava magnificamente. Me ne accorsi la mattina dopo nel farlo uscire di scuderia. — Bisognava sferrarlo, — dissi. — Ma il dolore dev'essere nella spalla. — Non importa; va sferrato. — Mi detti a comprimere la spalla dell'irlandese, cercando nelle muscolature di suscitargli un dolore. Infatti, ad un certo punto, il cavallo si agitò sotto la pressione delle dita, volgendo la groppa ed inarcando il collo. — È una spallata, — dissi. — Forse avrà dato nel battifianco o si sarà coricato male. Fategli una buona fregagione d'«Embrocation» e mettetegli un po' di creta. Sarà meglio chiamare il veterinario in ogni modo. — Povero Good Bye! — fece Edoarda battendo il palmo su la sua bella narice bianca. Il cavallo scomparve nella scuderia e rimanemmo soli, Edoarda ed io, nel mezzo della corte, al sole. — Dove andremo? — le domandai. — Dove tu preferisci: nel giardino o sopra. Quel pomeriggio, in sul morir dell'inverno, era quasi tepido come una primavera; il giardino inverdiva di là dalla corte. — Sopra, — io scelsi, pensando che le facesse piacere. E ci avviammo. Per le scale volli prenderle un braccio, ma Edoarda eluse il mio gesto, salendo più rapida sino al pianerottolo. — Edoarda, che hai? — Perchè cerchi di fingere? — mi rispose tristemente. — Sei molto ingiusta con me! Allora ella chiuse l'uscio dell'anticamera, in faccia a Whisky che voleva entrare con noi, e passando piano per la stanza ove la zia sonnecchiava entrammo nel salottino, dove ogni cosa poteva rievocarci una sua particolare memoria. Traverso le cortine il sole delineava una trama di vincoli floreali, muovendo una palpitazione luminosa intorno alle pareti, ai mobili ed ai cuscini, ch'erano foderati di una stoffa delicatissima, dal colore un po' languido della rosa di gruogo. Una striscia di polvere animata fendeva obliquamente la stanza, traendo qualche bagliore dalle coppe fiorentine, che traboccavano di bianco lilla e di lilla malvato; sopra un tavolino, in un angolo, fra molti ninnoli graziosi, una scatola d'argento si accendeva d'una raggiera insostenibile, ferita in pieno da quel raggio di sole. In silenzio Edoarda sedette sopra il divano, e come in forza d'un'abitudine lasciò vuoto al suo fianco lo spazio dov'io sedevo di consueto per prenderla fra le braccia. Ed ecco mi posi accanto a lei, sul divano, senza guardarla, non osando interrompere il silenzio. Di fronte v'era una piccola scrivania di legno roseo, intarsiato alla foggia di Andrea Carlo Boule, un delizioso mobile del Settecento, con incrostazioni di madreperla e di mosaico fino; più oltre, nella parete, un caminetto con gli alari di bronzo, chiuso da una lamina d'ottone istoriato, e così minuscolo da parere costrutto per i piedini di una bambola di Norimberga. — Germano, — ella prese a dire lentamente, con gli occhi semichiusi, le palpebre sfiorate da un triste sorriso di evocazione, — ti ricordi quanti sogni abbiamo

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Argomenti: piccolo segno,    mantello sauro,    triste sorriso,    lungo sospiro,    porcellana tenue

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