L'amore che torna di Guido da Verona pagina 43

Testo di pubblico dominio

tappeto. — Io sono sfortunatissimo al giuoco: arrivo sempre troppo tardi. Ora certo vincerà. — Ma no! ma no! Ha una disdetta orribile questa sera! La signora di Clairval intanto si era levata. L'altra mi sedette vicino. — Ecco, giuocheremo insieme, se volete, — mi disse. — Io metto venticinque luigi e venticinque li mettete voi. Mi sento in fortuna: fidatevi. Non perderemo più di queste mille lire; volete? — Con molto piacere. — A proposito, sentite una cosa: io vi chiamerò Domini, Domini semplicemente, perchè il resto non me lo posso rammentare. — Ve ne dispenso. — Domini, che in latino credo voglia dire «signore». Cosicchè sarete per un momento «il mio signore...» E rise di un bel riso limpido. — Magari lo fossi! — esclamai, curvandomi un poco su le sue spalle nude. — Oh, credo che non ci teniate affatto! — Questo poi... lo dite senza saperlo. — Invece lo dico sapendolo, perchè voi avete di meglio. — Ecco: volevo quasi farvi la corte; ora con questa frase, me lo impedite, — risposi con galanteria, sorridendole. — Ah, gli uomini! Credevo che in Italia fossero più serii. — Oh, no affatto! — Andiamo dunque a giuocare. Vinceremo un patrimonio questa sera! — Sia pure! Intanto eccovi la mia parte. — No, no, mettete via quel denaro; me lo darete se perderemo. — Siete molto cortese ma non posso accettare. — Sentite, io sono superstiziosa, e voglio giocare con questo denaro che ho vinto. Porterà fortuna. Venite. Andammo verso la tavola da giuoco, ed io facevo intanto qualche riflessione amaramente piccina. Pensavo che si sarebbero certo perdute quelle mille, forse molte altre migliaia di lire, senza ch'io potessi esimermi dal dividere la sua sorte o dal confessare le mie strettezze. Così, dalle più piccole cose alle più grandi, la mia decadenza mi appariva manifesta, dandomi al cuore un senso di vergogna e di commiserazione. Guardavo e tacevo. Intorno al tavoliere stavano facce di uomini, torve o ridenti, eran visi di donne, affannate per l'ansia della sorte o soddisfatte per il suo favore. L'oro, e le carte, e la voce monotona del banchiere che annunziava un punto, e quelle mani che tutte parevano ghermitrici ed avare, mettendo o raccogliendo le poste, l'ansia di chi giocava e la placida ironia degli spettatori, la luce delle lampade basse, il fumo dei sigari, gli scoppi di risa repentini, le imprecazioni frequenti, la pausa di silenzio che precedeva ogni colpo e quella specie di rallentamento che ne seguiva l'annunzio, tutto questo insieme, per la prima volta mi dava una sensazione acre d'immoralità e di bassezza, come la visione di una grande crapula in cui fossero palesi tutti gl'istinti più perversi della bestia umana. Ora che il denaro non mi apparteneva più come un facile retaggio, ne vedevo con altri occhi tutte le orride, le occulte vie di conquista e ripensavo alle parole del d'Hermòs con una specie d'interiore brivido. Intanto la sorte favoriva la mia bella compagna. Ella poneva le poste ad ogni colpo, allungando sul tappeto la mano bianchissima, carica d'anelli che la facevano splendere. Il d'Hermòs, che stava dall'altro lato e giocava con noncuranza, aveva esclamato vedendoci: — Oh, finalmente vi siete lasciato tentare anche voi! — Non però dalle carte! — risposi, accennando alla piccola Yvonne. — La donna e il giuoco vanno insieme come il diavolo e l'acqua santa — egli disse per celia. — E voi siete un insolente! — ella gli rimandò su lo stesso tono. In piedi, presso di lei, stavo considerando la mia compagna. Smorta in viso, di un pallor carico e torbido come il colore dell'ambra, due vasti occhi le splendevano sotto la fronte piana, una fronte di statua greca, dalle sopracciglia troppo lontane. Aveva un profilo dolcissimo, come i cammei del Cinquecento, ma su la bocca fredda e arida un sorriso di donna crudele. I capelli nerissimi le si partivano dal mezzo della fronte, spartiti da una scriminatura fina, in due gonfie ali compatte, lucide come due stole di lontra, che ondeggiavano intorno alle tempie facendole su la nuca un nodo così voluminoso da parer soverchio per la sua fragilità. Era veramente un gingillo da principe, una cosa tenue ma temibile, una figura di malefizio. E forse dai capelli troppo neri, dal seno troppo scollato, le usciva un profumo intenso, quasi un'evanescenza della sua pelle, che sotto il velo della cipria sembrava soffusa di un color d'oriente, come hanno talora le donne arabe a vent'anni. Le sue braccia ignude, passando in un raggio di luce, riscintillavano d'una invisibile vellatatura bionda. Ella doveva possedere il secreto di qualche lussuria strana. Sovente si volgeva, con una mossa rapida, per domandarmi consiglio intorno al giuoco, ed i suoi occhi parevano compiacersi di quella suggestione torbida che si accorgevano di suscitare in me. Ora, spesso, e come per inavvertenza, mi posava le mani su le ginocchia, e nel piegarsi, o nel volgersi, tutta la sua persona carezzava leggermente la mia. M'accostai ancor più; le stetti con la faccia così vicino che le mie labbra quasi toccavano il suo orecchio minuscolo, il quale pareva spuntare dalla foltezza dei capelli come il delicato bòcciolo di un fiore. A un certo punto ella raccolse quasi tutto il denaro che aveva dinanzi e me lo diede. — Mettete questo a parte, — mi disse. — Bisogna essere prudenti. È il guadagno. Ed ora cominciamo da capo con le mille lire che mi rimangono. Se si perde, poco male. — Avete fiducia nella mia scrupolosità? — domandai scherzando, mentre intascavo la somma. — Niente affatto! — rispose ridendo. — Anzi datemi per garanzia una vostra mano; così non potrete rubare. — Ma ho sempre l'altra... — feci, stringendo la sua piccola mano. Ella intrecciò le dita nervosamente nelle mie, mentre, con l'altro gomito puntato su la tavola, tendeva il collo innanzi per attendere l'esito di un raddoppio audace. Fu perduto: ella fece un piccolo gesto d'ira. Giuocò di nuovo e perdette; allora si rovesciò all'indietro, sopra la spalliera della seggiola ed un po' contro la mia spalla. Su l'abito mi restò il segno bianco della cipria che aveva su la scollatura. Una signora molto dipinta, che le sedeva presso, tutta ricciuta di capelli rimessi, con le labbra sovraccariche di rossetto, e che ogni tanto ci guardava sorridendo, le disse, con una smorfia di malcontento che fece tremolare la sua faccia pingue: — Ora il banchiere si mette ad aver fortuna; non giocate più. Ella scosse le spalle senza risponderle: giocò un'altra volta e perdette. Allora chinandosi un poco, mi confidò sottovoce: — Questa vecchia è una terribile iettatrice! Io risi; ella pure. Le rimanevano davanti alcune centinaia di lire. Mi propose: — Ora gioco tutto e lascio tre volte, se non si perde prima. Poi ce ne andremo in ogni modo; volete? — Benissimo, fate così. Con un gesto largo ella spinse innanzi tutto il denaro. L'uomo che teneva il banco si volse a guardarla con un sorriso irritante nel volto che splendeva di obesità, e le disse: — Adagio, bella Yvonne! Volete proprio colarmi a fondo questa sera? — Impossibile! — ella rispose con insolenza. — Siete talmente grasso che tornerete sempre a galla! L'uomo trovò la celia di suo garbo e ne rise insieme con altri. — Stiamo a vedere, — ella mi disse piano, mentre il banchiere distribuiva le carte. Congiunse le mani e sopra vi tenne il mento. Poi trasse un respiro, mi fece un piccolo cenno: il colpo era vinto. — Non ritirate, piccola Yvonne? — le domandò il banchiere, pagando la sua posta. — No, amico mio, non ritiro. Anzi lascerò due colpi ancora. Ed a me, sottovoce: — Aranda non ama che le donne vincano il suo denaro. Le carte furono distribuite una seconda volta ed ella si rannicchiò in sè medesima, come per farsi più piccina. Colui che aveva la mano guardò Yvonne con un sorriso ed annunziò forte: — -Nove! — Bravo! — gli rispose Yvonne, battendo i palmi. — E due, — contò il

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Argomenti: gesto largo,    segno bianco,    disdetta orribile,    venticinque luigi,    latino credo

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