L'amore che torna di Guido da Verona pagina 16

Testo di pubblico dominio

umana, come dottori all'Accademia, essi, fra le caraffe d'acquavite. Allora pensò ch'ella pure, come quei caduti, come quegli ex-uomini, aveva un passato di luce, un avvenire d'ombra. Com'essi era caduta sotto l'invincibile furore della fortuna e più non le rimaneva che una forza: quella di considerare la vita come una catena di avvenimenti provvisori, cioè dall'oggi al domani, con instabilità seguendo l'alea dei nomadi, e senza perdere mai la coscienza di rimanere un «essere umano». Pochi centesimi bastarono alla sua vita, qualche libro, qualche fiore. E visse di sè, chiudendo nell'anima sua di fanciulla un infinito mondo; vide ciò che ha nome il bene e il male, ciò che gli uomini hanno pensato di giusto e d'ingiusto, ciò che una creatura deve compiere per insignorirsi del proprio destino. Libera e sola, continuò quel suo pellegrinaggio, fin quando, in una città sul Reno, essendosi gravemente ammalata, fu accolta in un Asilo Evangelico. Dopo la guarigione, le suore che avevan preso ad amarla vollero rimanesse con loro e le affidarono alcuni bimbi da educare, quand'ella ebbe loro promesso di convertirsi al protestantesimo. Quella pace ora la riposava; le pareva di amare il convento, le preghiere lunghe, le fervide meditazioni; un fondo di misticismo innato le si ridestava nei recessi dell'anima. Il pastore che l'istruiva per la conversione s'innamorò di lei. Non glielo disse dapprima, forse non osò; ma ogni giorno le portava un libro di fede o di evangelica meditazione, avendone prima sottolineate alcune frasi di amore castissimo. E talvolta, partendo, serrava lungamente una mano della fanciulla tra le sue. Finalmente un giorno si fece coraggio; le confessò di volerle bene, le domandò se avrebbe mai consentito a sposarlo. Elena, dopo averlo guardato un momento, si mise a ridere come una pazza, e rise così forte che il povero giovine, tutto vergognoso, fuggì. Ma poi, quando lo rivide, così pallido e serio, così turbato davanti a lei, quasi le spiacque di avergli fatto male e gli usò molte piccole cortesie. Ora il giovine le impartiva la sua lezione rigidamente, senza guardarla, e solo di quando in quando le portava un libro, ancora con le parole segnate. Un giorno, — eran nel giardino dell'Asilo, d'autunno, quando i fiori appassivano tra l'ingiallire delle foglie, — il pastore venne di nuovo, più turbato, e le camminò lungamente a fianco, senza parlare. Per la prima volta Elena lo guardò come si guarda un uomo. Il pastore si chiamava Miller; forse non aveva più di venticinque anni. I suoi capelli spiovevano biondi e ben pettinati fino alla piegatura della nuca, facendo come uno scalino sopra le spalle, un po' esili nella solennità dell'abito nero. Due chiari occhi morbidi gli splendevano sotto la fronte vasta, mitigando l'ardore della sua bocca troppo sensuale, che in alcuni sorrisi tradiva i segni di una forte volontà repressa. D'un tratto il pastore, fermandosi davanti a lei, rigido, con il capo scoperto, mentre il sole gli dorava la fronte, ripetè la sua domanda: — Non vorreste voi, Elena, dividere con me, nella mia casa e nella mia vita, quella missione di carità umana che mi è concessa da Dio? Era un pomeriggio di sole; tutte le finestre del convento splendevano come raggiere; dal vivaio, le rose inclaustrate mandavano per l'aria dorata un profumo inebbriante. Ed ella, forse perchè il turbamento di quella voce la invase, forse perchè il giovine era bello così, con la fronte nel sole, forse perchè il luogo, l'autunno, le foglie cadute, le infondevano un senso di commozione mistica, ella, senza riflettere un momento, promise di sì.... Ma tre giorni dopo lasciava l'asilo e la città ed il fidanzato, per correre lontano, in cerca d'altri destini. Ella compiva queste crudeltà involontariamente, senza più ripensarvi, perchè nella sua vita si era fatta un'anima di avventuriera e non sapeva bene intendere nè definire cosa mai fosse quel comune desiderio degli uomini, che li spingeva tutti a volerla, fosser anche d'animo puro e dolce come il pastore Miller o come l'amico Mathias, del quale aveva ora migliori notizie. Non era più così povero; un quadro esposto l'anno prima lo aveva reso noto, ed anzi, nei giornali parigini, aveva letti grandi elogi su di lui. Nell'ultima sua lettera egli le scriveva che si sarebbe recato presto a Berlino, perchè gli avevano data la commissione di un ritratto, e sperava di rivederla, dopo così lungo tempo. Rivedere Mathias!... Oh, certo, anch'ella vi sarebbe andata! Quando arrivò il suo treno, egli l'attendeva sotto l'atrio della stazione. Dopo tre anni, com'erano entrambi mutati! Ma parve ad entrambi che non fosse trascorso nemmeno un giorno. Si abbracciarono e non osarono baciarsi. Mathias non vestiva più quegli abiti così dimessi; era più elegante assai, ma conservava sempre la medesima fronte pensierosa e quegli occhi un po' esaltati, quel suo triste pallore. Anzi era più pallido, e, camminando, una invincibile stanchezza gli traspariva da tutte le membra. Elena ebbe quasi vergogna di ritrovarsi così piena di forze, accanto a quel giovine che pareva estremamente sfiorito. Abitarono vicino; egli prese in affitto uno studio vasto, luminoso; ella, due piccolissime stanze ad un terzo piano. Elena in quei giorni non aveva denaro e non voleva certo vendere i pochi gioielli della madre. Allora Mathias gliene prestò; ma ella poi lo costrinse a riprenderlo quando appena potè ottenere alcune lezioni di lingue straniere. Mathias le disse tristemente: — Voi non mi considerate più come il vostro amico.... Gli altri uomini vi hanno insegnato a diffidare anche di me. Qualche volta egli si atterriva nell'udirla parlare; allora la guardava con un lungo rimprovero silenzioso ed una specie di affanno contraeva la sua faccia dimagrata. Passò l'inverno. Egli andava ogni giorno a prenderla, quando moriva la luce su le tele de' suoi quadri, ed uscivano insieme per la città rumorosa, per i viali dei grandi parchi, simili a foreste addormentate, ove la primavera destava tra il verde il canto nuovo delle fontane. Mathias non le parlava quasi mai; solamente l'ascoltava, camminandole a fianco un po' curvo, e qualche volta scuotendo il capo, quando Elena faceva ad alta voce un sogno d'avvenire. — Se io facessi un quadro di voi? — le disse un giorno. — Si? Volete? — Elena rispose. Ed una felicità subitanea splendette nella faccia del pittore. Tosto vi si accinse. Tutta l'anima del giovine si trasfuse nel quadro, l'anima che voleva tutta esprimere quella pura bellezza in una luminosa magnificenza di colori. Elena non poteva concedergli molte ore della sua giornata e l'opera si compiva lentamente. Dopo alcuni mesi dall'arrivo, un giorno ella si recò a visitare l'Hohenfels, al quale aveva scritto di quando in quando lungo le sue peregrinazioni. Un sentimento strano la guidava ora verso di lui, verso quell'uomo del quale aveva sempre avuta una irragionevole paura. Ed era il desiderio di apparirgli davanti, nel fiore della sua bellezza, un po' altera, un po' beffarda, ora che si sentiva sicura della propria forza e sapeva di non tremare davanti a quegli occhi. Voleva quasi dirgli con uno sguardo: — Ecco, vedete: sono qui. Non ho avuto bisogno di voi, non vi debbo nulla! Egli era forse un po' invecchiato, ma conservava sempre una grande vivacità nella fisionomia, nei gesti, ed un sorriso leggermente sardonico su l'orlo della bocca fine. Al vederla, ne rimase attonito; s'informò dove abitasse, che facesse, quali fossero i suoi disegni. Una settimana dopo l'andò a visitare nelle sue piccole stanze, e giudicando il luogo inadatto, disse che per il medesimo prezzo avrebbe potuto trovare assai meglio a Berlino, se gli concedeva di far ricerche per lei. Ella se ne schermì più volte, ma le sue preghiere la vinsero, perch'egli sapeva essere persuasivo, cortese, discreto. Tornò, dicendole di aver trovato per lo stesso prezzo una grande camera, quasi elegante, presso una famiglia

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Argomenti: bocca troppo,    misticismo innato,    forte volontà,    comune desiderio,    invincibile stanchezza

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