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L'amore che torna di Guido da Verona pagina 68Guelfa per vendere la tenuta e mi ammalai. Appena guarito, venni a cercarti. Oggi, che ti ritrovo, non mi vuoi più... — Siete un po' dimagrato infatti, — ella osservò, sorvolando sul resto. — Bah... non è stato un anno molto allegro! E tu? — Io? Sono partita tre mesi dopo; ho viaggiato, ed anch'io non sono stata bene. Allora le presi una mano e vi posai le labbra senza ch'ella me lo impedisse. — Elena, — mormorai, — quanto ho sofferto! Non te lo potrò mai descrivere! Ho bisogno di parlarti a lungo. Vuoi che usciamo? — Dove? — Non hai ancora pranzato, suppongo? — Non ancora. — Ebbene vieni con me. Andremo da Paillard o da Larue, come una volta. — No, no! — ella fece, ritraendo la mano con rapidità. — Questo non me lo puoi negare. Assolutamente bisogna che ti parli, Elena. Qui fra poco verrà gente; poi... sii buona! — Ebbene, se proprio volete... — Oh, sì! te ne prego! te ne prego! — Ma dovrò allora cambiarmi d'abiti. — Non importa; sei tanto bella così. Ella sorrise, come una volta, quando la baciavo. — Abbiate pazienza, farò presto. Ed uscì con il suo passo agile, con quel rumor di seta che le udivo suonare intorno al piede, come quando l'evocavo ne' miei sogni e mi pareva di udirla giungere, sovra i tappeti, senza quasi far muovere l'aria. Mi sembrò in quel momento che il mondo si fosse ringiovanito di primavere, l'anima mia di speranze, la mia stessa persona di felicità. Mi piaceva quasi d'aver sofferto, per conoscere la gioia di quel ritorno ed avevo su le labbra diffuso il sapore del primo bacio ch'ella mi avrebbe dato. Ero sicuro in cuor mio di vincere il suo rifiuto, e la vita, che si apriva dinanzi al mio sogno mi pareva piena d'aurore. Immaginavo le parole che le avrei dette; avevo negli occhi la visione della sua camera sconosciuta, vedevo lei andare dal lavabo alla specchiera, asciugandosi le mani, ravviandosi i capelli. Non tardò a ridiscendere; aveva il mantello aperto e si vedeva in fondo all'abito di velluto viola una luminosa guarnizione d'argento; portava un grande boa bianco, un cappello nero con una folta piuma. Si allacciava i guanti stando su la porta e mi diceva sorridendo: — Vi ho fatto molto aspettare? — No; hai fatto presto; vieni. Uscimmo sotto il portico per attendere una vettura. Tutto il giorno aveva nevicato; in quel momento le stelle ridevano dal cielo sgombro, brillando con gelida serenità nell'aria che il freddo illimpidiva. Accanto a lei mi sentivo buono, ilare, pieno di felicità, e le cose circostanti rispecchiavano il mio giubilo interiore. Quando fummo nella vettura, lato a lato, poichè non osavo baciarla, nascosi la faccia nel suo boa, tepido e soffice, sotto cui sentivo la forma della sua spalla delinearsi morbidamente. — Non fate così... — ella disse piano, ritraendosi un poco. — Dimmi ancora «tu»... — la pregai. — Non senti come ti voglio bene? Ella si piegò verso il vetro per guardar fuori, verso la strada, ove i lumi scintillavano. Poi disse: — Rimarrete molto a Parigi? — Elena, — la supplicai — non mi torturare! Sono tornato per rimanere con te, per vivere con te, m'intendi? Non lo desideri un poco anche tu? — Non so, non so... — ella rispose. — Ad ogni modo non lo voglio; non è ormai una cosa possibile. — Perchè dici questo? Ne ami forse un altro? — Oh, no! Questo no davvero! — E rise forte, chiudendosi nel suo mantello. — Non mi conoscete affatto, — riprese. — Io non sono di quelle che ritornano... Poi abbiamo due maniere così diverse d'intendere la vita, l'amore, tutto!... — È vero: tu sai dimenticare, — dissi amaramente. — Bah... che stranezza! La vettura, su la neve, camminava lenta, senza urti, sostando spesso dietro altre che andavano in fila. — Non rattristatevi, Germano, — ella disse poi. — Una volta eravate sempre così tranquillo... — Già... una volta! Ma vivendo si muta. Un lungo silenzio ancora; poi le dissi: — Hai ricevuto i fiori che ti mandai da Torre Guelfa? — Sì. — E le lettere che ti scrivevo? — Anche. Si giunse; traversammo la sala terrena, piena di gente che pranzava; alcuni ci riconobbero, salutarono bisbigliando: salimmo ad una piccola sala appartata e venne un maggiordomo cerimonioso ad offrirci la lista della cena. Su la parete brillava un grande specchio, che rifletteva la tavola apparecchiata con fiori e cristallerie. Tolsi ad Elena il mantello, il manicotto, ed ella, in piedi, vicino alla tavola, cominciò a sbottonarsi i guanti. Il contrasto dell'aria tepida con il frizzo della nevicata le arrossava un po' le guance; l'ombra d'una piuma le scendeva sino a mezzo il viso e con un moto lento si faceva scorrere in giù dall'avambraccio il guanto, ch'era d'un tenuissimo color sciampagna, e le calzava sino al gomito. Dietro lei, nello specchio, si rifletteva l'abbondanza de' suoi capelli scintillanti. — Vuoi comandare il pranzo? — le domandai, porgendole la lista. — No, fa tu. Sorrisi, e scelsi tutte le cose che una volta ella prediligeva. Il maggiordomo uscì, e venne in sua vece un cameriere, che prese ad apparecchiare. Quando aprivano la porta giungeva con impetuose ondate il suono di un'orchestra zingara. — È quasi passato un anno, — ella disse, intrecciando le dita sul piatto vuoto e facendovi battere gli anelli. — Già, un anno... un'eternità! Elena, siamo stati pazzi, veramente pazzi, tutt'e due... io più di te. Ora ti sei vendicata: basta! — Vendicata? Non è la parola. Ho fatto solamente quello che credevo necessario per il vostro bene. Quando mi sono accorta ch'ero per voi un impedimento, vi ho lasciato libero. Questa non è una vendetta, e credo non possiate rimproverarmi nulla. — Infatti non ti rimprovero, anzi ti prego. Puoi forse comprendere come sia fatto il cuore dell'uomo? Allora mi piacevi solamente, ora ti amo. I camerieri entravano di continuo e bisognava interrompere il discorso. Le facevo alcune domande saltuarie, cui ella rispondeva con brevità. — Da dove sei giunta ultimamente a Parigi? — Da Compiègne. — Che facevi a Compiègne? — Nulla; fui malata; mi riposavo. — Hai conosciuta molta gente in questo frattempo? — Sì, molta. — È un pezzo che non reciti più? — Dal Maggio. — E, senti... non ti offenderai se ti faccio un'altra domanda? — No, di' pure. — Come sei vissuta da allora fin qui? — Vuoi forse dire come ho trovato il denaro per vivere? — Appunto. — Me ne hanno prestato, — ella spiegò sorridendo. Ora il maggiordomo imbandiva. Un turacciolo saltò con rumore. Traverso la porta socchiusa, or forti, or lenti, si udivano volar le note della marcia di Rakoczki. Quando rimanemmo soli, presi ad osservare la sua persona minutamente, poi dissi: — Che bell'abito hai! — Ti piace? — Sì. — Dove lo hai fatto fare? — Da Paquin. — Ti vesti da Paquin ora? — Da Paquin o, qualche volta, da Doucet. — Sei molto ricca dunque? Ella sorrise di nuovo in modo ambiguo. — E tu? — Oh, anch'io... ricchissimo! — esclamai scherzoso. — Ho vinto quel che ho voluto a Monte Carlo, ultimamente. — Bravo! E la terra è venduta, mi hai detto? Anche Torre Guelfa? — No, Torre Guelfa mi rimane ancora, ma non l'amo più. Vi ho trascorso un tempo troppo doloroso. Bah... che importa?... Bevi! Le colmai fin quasi all'orlo il bicchiere. Ella v'intinse le labbra, bevve un sorso e depose pianamente il calice. Lo tolsi allora dalla sua mano e bevvi anch'io, come per stordirmi, tutto d'un fiato. Le dissi: — Molte volte avrei voluto ubbriacarmi, e non potevo. Tutto mi dava un senso di tristezza. Poi le tesi una mano e seguitai: — Elena, vuoi fare la pace con me? Ella battè le falangi nervosamente sul mio palmo e domandò: — La pace? cosa vuoi dire? — Perdonarmi, se preferisci; dimenticare quest'anno come un brutto sogno. — Ah, sì?... — ella fece, appoggiandosi alla spalliera della seggiola. Le sue pupille, straordinariamente lucide, mi fissavano con intensità, con irritazione; e taceva. 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