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L'amore che torna di Guido da Verona pagina 58la natura de' propri sentimenti, provò il bisogno di protendere ancora la sua volontà gelosa e forte su quel dominio che gli sfuggiva, onde mi parve che l'amor mio crescesse, fino a divenire un tormento, fino a sentirsi capace d'improvvise violenze. — Tu non puoi non appartenermi! — esclamai con ira. — Non puoi dimenticarmi, come io non posso dimenticare te. Ella si levò diritta, rimase un momento, muta, rigida, fissandomi quasi con odio. — Lo credi? — rispose con una voce piena di scherno, che mi sibilò fin nel cuore. Dall'alto paralume della lampada le pioveva sui capelli color dell'oro e del bronzo una diffusa luce, formandole intorno al capo quasi un'aureola splendente. Ed io, come se l'avessi già perduta, mi ricordai la sua carne viva, posseduta con tristezza e con furore, mi ricordai le sue labbra che sapevano di primavera e le parole che mi avevano mormorate nelle notti d'amore. La vidi camminare per la stanza, fermarsi davanti ad uno specchio, alzar le due mani con pigrizia per ravviarsi i capelli. Le andai vicino, e la baciai. Ella divenne tutta bianca, cercò di respingermi, poi, d'un tratto, si mise a ridere. Lo specchio, di fronte, le rimandava il suo riso convulso. Allora, sotto gli occhi, negli angoli della bocca, nel cavo del mento, su le tempie, alle radici dei capelli, nel solco profondo che le si formò tra i sopraccigli, vidi apparire un'ombra che non conoscevo, quell'ombra che somiglia quasi alla paura dell'anima quando incomincia la voluttà. Fra le sue labbra socchiuse i denti scintillavano, minuti e crudeli; la sua gola scoperta era gonfia di riso e di singhiozzo; intorno ai polsi, per la inquietudine de' suoi movimenti, si udiva un tintinnire di braccialetti che mandavano splendore. Dal sommo della fronte al lembo della gonna ella era tutta una voluttà sola. X Il denaro atteso mi giunse da Roma, con una lettera del Capuano, dov'egli giustificava il ritardo spiegando le varie difficoltà incontrate nel procacciarmi un nuovo credito. Tuttavia compresi di dovere a lui solo questo generoso favore, e poichè sapevo ch'egli non era un uomo ricco, la sua bontà mi commosse tristemente. Ma ebbi vergogna, e nel ringraziarlo finsi di non aver compreso. Verso quel tempo il d'Hermòs fece ritorno a Parigi. Nutrii la speranza nascosta ch'egli potesse aiutarmi ancora, ma invece doveva sùbito partire per l'Egitto, dove, ad ogni costo, mi voleva con sè. Non mi sentivo l'animo d'intraprendere viaggi e molte risoluzioni urgenti stringevano la mia perplessità. Quello che accettai senza discutere fu di recarmi a Londra una seconda volta per vendere un buon numero di pietre sciolte e consegnare una collana di rubini ad un certo personaggio misterioso, che venne appositamente dalla Scozia per incontrarsi meco. Sulle pietre feci un lauto guadagno, e, quanto alla collana, il d'Hermòs mi disse che avrei ricevuta la mia parte in séguito, quando la si vendesse. Intanto si avvicinava la scadenza dell'ipoteca fatta con il Rossengo di Terracina, e da Roma l'amministratore mi tempestava di lettere, sollecitando la mia presenza ed avvertendomi che il creditore non era questa volta propenso ad alcuna transazione. Risposi che non avevo denaro per riscattar la terra, e trattasse pure una vendita vantaggiosa, che presto sarei venuto. Non v'era più salvezza: bisognava chinare la fronte. Raccontai queste cose ad Elena, ed ella mi domandò semplicemente: — Quando andrai via? Risposi: — Non so. Forse domani, forse mai. Ora, quando ci si parlava, non osavamo più guardarci; entrambi eravamo oppressi da un senso di vergogna, di paura, o forse ci sentivamo pervadere da una disperazione muta. Si disse malata; non andò al suo teatro; vennero a vederla, non volle ricevere alcuno. Rimaneva per lunghe ore nella sua camera, spesso con l'uscio aperto; la vedevo star seduta, in silenzio; talora camminar lentamente, in su, in giù, con un passo inerte, la fronte china, quasi uccidesse la noia di una mortale attesa. Io non uscii di casa per alcuni giorni; andavo da una stanza all'altra, ozioso, trasognato, sentendo quasi operare in me la magìa di un sortilegio. Volevo andarle a parlare; mi alzavo, preso dall'irrequietudine, poi smarrivo la memoria delle parole indispensabili, e tornavo indietro. Una ridda folle di oscure immagini turbinava nel mio cervello e mi sentivo crescere nelle orecchie il rombo d'una voce interiore, che mi andava gridando con accanimento: «Quanto sei vile! Quanto sei vile!» Mangiavamo a lato a lato, in silenzio. Cosa passò in quell'anima? nella mia?... Chi potrebbe mai dirlo? E la primavera intanto fioriva; la strada era percorsa da comitive ilari, con uno sfoggio di colori gai. Quell'anno anzi essa tornava innanzi tempo; dalla terrazza si vedevano gli equipaggi muovere in lunghe file verso il Bosco rinnovellato, e più tardi risalire, per tutto il giorno, avanti, indietro, come se la città intera s'allietasse nel visitare i suoi giardini. Un sole ancor freddo illuminava quella passeggiata festosa, ridendo sui chiari ombrellini delle signore, fra i quali svariavano le giubbe dei cavalieri caracollanti a fianco degli equipaggi, mentre da un lato all'altro si scambiavano saluti e cavalcando facevano bella pompa di maestrìa. Era tempo di freschi amori, di nozze nuove, di cortesi galanterie, d'allegrezze primaverili. Noi soli, nella nostra casa conscia di troppe sventure, muti, stanchi, avversi, guardavamo dalla fresca terra nascere la primavera invano. Passò una mattina, mentre stavo al balcone, una venditrice di fiori. Aveva la sua cesta piena di violette e di rose; non altro che violette e rose. La chiamai più volte, poichè non mi udiva. La donna volse gli occhi al mio terrazzo e sollevò il paniere. — Atténdimi, — le dissi; — ora scendo. E scesi; comprai tutti i suoi fiori, e la canestra insieme. Salii per le scale portando io stesso quel gran fascio, e mi parve che un poco di primavera entrasse nella nostra casa con quel profumo di fiori mattutini. Li deposi, com'erano, su la tavola nella sala da pranzo, e stetti a guardarli pensierosamente, come si guarda una bellezza inutile. Povere violette, povere rose, povero me stesso che le avevo portate! Dal poggiolo aperto, l'alito primaverile scorreva sovr'esse, agitando i cálici colmi di gocciole splendenti. Violette e rose, dono vaghissimo e tristissimo per un amore condannato! E guardandole mi rammentai quel giardino di Torre Guelfa, dove c'era una pergola tutta di rose, un piccolo bosco tutto di viole. Pensai ch'essi pure, in quel tempo, aprivano le corolle, i miei fiori d'Italia, e mi sovvenne del giorno ch'eravamo partiti insieme, sul barroccio di Lazzaro, con la cavalla saura tutta infiorata, per andare a Fondi alla festa della primavera. Volli chiamar Elena per dirle: — Guarda: sono gli ultimi fiori... — ma compresi che avrei pianto, e l'avrei fatta piangere, mentre nel nostro immenso dolore la sola cosa benefica era il silenzio. Quando entrò, li vide. Con i suoi occhi lucenti mi mandò un sorriso e fece scorrere la mano sui fiori, delicatamente, come avrebbe fatto per carezzare la testa di un bimbo. Poi li portò nella sua camera, sempre in silenzio. Intanto i giorni passavano, in quella perplessità simile allo sgomento; noi fummo come due sconosciuti che facessero insieme una veglia di morte. Ma un pomeriggio, mentre in ozio fumavo nel mio scrittoio pensando a cose lontane, ella entrò, sorridente, leggera, e mi disse come per ischerzo: — Vieni, ora faremo i tuoi bauli. Ogni linea del suo viso tradiva uno sforzo incredibile di volontà; la guardai meglio; mi parve che ci fossero nella sua persona i segni d'una profonda stanchezza; mi ricordai che ogni tanto la vedevo passarsi una mano su gli occhi, o premerla contro il petto, con un sospiro quasi di soffocazione. Inoltre non camminava più così diritta; c'era nella sua persona quasi uno sfiorire lento. La seguii senza rispondere; aveva già fatti portare i bauli nella mia camera, e s'accinse a Tag: fiori rose primavera fronte silenzio uno tempo occhi camera Argomenti: due mani, solco profondo, piccolo bosco, certo personaggio, ridda folle Altri libri consultabili online del sito affini al contenuto della pagina: La trovatella di Milano di Carolina Invernizio Stanze della gelosia di Torquato Tasso Decameron di Giovanni Boccaccio La divina commedia di Dante Alighieri Fior di passione di Matilde Serao Articoli del sito affini al contenuto della pagina: Come piantare le rose Significato della primula Thailandia la terra del sorriso Catturare farfalle per allevarle Essiccare i fiori di mimosa
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