Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 81

Testo di pubblico dominio

Rimandatemi a casa mia. Voglio chiuder gli occhi dove son nato! L'idea della morte ora non lo lasciava più; si tradiva nelle domande insidiose, nelle occhiate piene di sospetto, anche nella preoccupazione affannosa di dissimularla in vari modi. Adesso non aveva più suggezione di nessuno, e afferrava chi gli capitava per domandare: - Voglio sapere la verità, signori cari... Per regolare le mie cose... i miei interessi... - E se cercavano di rassicurarlo, dicendogli che non c'era nulla di grave... di serio... pel momento... egli tornava ad insistere, ad appuntare gli occhi, furbo, per scavar terreno: - È che ho tanto da fare laggiù, al mio paese, signori miei... capite!... Non posso mica darmi bel tempo, io!... Bisogna che pensi a tutto, se no c'è la rovina!... Poi spiegava di dove gli era venuto quel male: - Sono stati i dispiaceri!... i bocconi amari!... ne ho avuti tanti! Vedete, me n'è rimasto il lievito qui dentro!... - Era tornato diffidente. Temeva che non vedessero l'ora di levarselo di torno, per risparmiar la spesa e impadronirsi del fatto suo. Cercava di rassicurar tutti quanti, col sorriso affabile: - Non guardate a spesa... Posso pagare... Mio genero lo sa... Tutto ciò che occorre... Non saranno denari persi... Se campo, ne guadagno ancora tanti dei denari... - Cogli occhi lucenti, cercava d'ingraziarsi la sua figliuola stessa. Sapeva che la roba, ahimé, mette l'inferno anche fra padri e figli. La pigliava in parola. Balbettava, accarezzandola come quand'era bambina, spiandola di sottecchi intanto, col cuore alla gola: - Qui cosa mi manca? Ho tutto per guarire... Tutto quello che ci vorrà spenderemo, non è vero? Ma il male lo vinceva e gli toglieva ogni illusione. In quei momenti di scoraggiamento il pover'uomo pensava a voce alta: - A che mi serve?... a che giova tutto ciò?... Neppure a tua madre è giovato! Un giorno venne a fargli visita l'amministratore del duca, officioso, tutto gentilezze come il suo padrone quando apparecchiavasi a dare la botta. S'informò della salute; gli fece le condoglianze per la malattia che tirava in lungo. Capiva bene, lui, un uomo d'affari come don Gesualdo... che dissesto... quanti danni... le conseguenze... un'azienda così vasta... senza nessuno che potesse occuparsene sul serio... Infine offrì d'incaricarsene lui... per l'interesse che portava alla casa... alla signora duchessa... Del signor duca era buon servo da tanti anni... Sicché prendeva a cuore anche gli interessi di don Gesualdo. Proponeva d'alleggerirlo d'ogni carico... finché si sarebbe guarito... se credeva... investendolo per procura... A misura che colui sputava fuori il veleno, don Gesualdo andava scomponendosi in viso. Non fiatava, stava ad ascoltarlo, cogli occhi bene aperti, e intanto ruminava come trarsi d'impiccio. A un tratto si mise a urlare e ad agitarsi quasi fosse colto di nuovo dalla colica, quasi fosse giunta l'ultima sua ora, e non udisse e non potesse più parlare. Balbettò solo, smaniando: - Chiamatemi mia figlia! Voglio veder mia figlia! Ma appena accorse lei, spaventata, egli non aggiunse altro. Si chiuse in se stesso a pensare come uscire dal malo passo, torvo, diffidente, voltandosi in là per non lasciarsi scappare qualche occhiata che lo tradisse. Soltanto ne piantò una lunga lunga addosso a quel galantuomo che se ne andava rimminchionito. Infine, a poco a poco, finse di calmarsi. Bisognava giuocar d'astuzia per uscire da quelle grinfie. Cominciò a far segno di sì e di sì col capo, fissando gli occhi amorevoli in volto alla figliuola allibita, col sorriso paterno, il fare bonario: - Sì... voglio darvi in mano tutto il fatto mio... per alleggerirmi il carico... Mi farete piacere anzi... nello stato in cui sono... Voglio spogliarmi di tutto... Già ho poco da vivere... Rimandatemi a casa mia per fare la procura... la donazione... tutto ciò che vorrete... Lì conosco il notaro... so dove metter le mani... Ma prima rimandatemi a casa mia... Tutto quello che vorrete, poi!... - Ah, babbo, babbo! - esclamò Isabella colle lagrime agli occhi. Ma egli sentivasi morire di giorno in giorno. Non poteva più muoversi. Sembravagli che gli mancassero le forze d'alzarsi dal letto e andarsene via perché gli toglievano il denaro, il sangue delle vene, per tenerlo sottomano, prigioniero. Sbuffava, smaniava, urlava di dolore e di collera. E poi ricadeva sfinito, minaccioso, colla schiuma alla bocca, sospettando di tutto, spiando prima le mani del cameriere se beveva un bicchiere d'acqua, guardando ciascuno negli occhi per scoprire la verità, per leggervi la sua sentenza, costretto a ricorrere agli artifizii per sapere qualcosa di quel che gli premeva. - Chiamatemi quell'uomo dell'altra volta... Portatemi le carte da firmare... È giusto, ci ho pensato su. Bisogna incaricare qualcuno dei miei interessi, finché guarisco... Ma adesso coloro non avevano fretta; gli promettevano sempre, dall'oggi al domani. Lo stesso duca si strinse nelle spalle: come a dire che non serviva più. Un terrore più grande, più vicino, della morte lo colse a quell'indifferenza. Insisteva, voleva disporre della sua roba, come per attaccarsi alla vita, per far atto d'energia e di volontà. Voleva far testamento, per dimostrare a se stesso ch'era tuttora il padrone. Il duca finalmente, per chetarlo, gli disse che non occorreva, poiché non c'erano altri eredi... Isabella era figlia unica... - Ah?... - rispose lui. - Non occorre... è figlia unica?... E tornò a ricoricarsi, lugubre. Avrebbe voluto rispondergli che ce n'erano ancora, degli eredi nati prima di lei, sangue suo stesso. Gli nascevano dei rimorsi, colla bile. Faceva dei brutti sogni, delle brutte facce pallide e irose gli apparivano la notte; delle voci, degli scossoni lo facevano svegliare di soprassalto, in un mare di sudore, col cuore che martellava forte. Tanti pensieri gli venivano adesso, tanti ricordi, tante persone gli sfilavano dinanzi: Bianca, Diodata, degli altri ancora: quelli non l'avrebbero lasciato morire senza aiuto! Volle un altro consulto, i migliori medici. Ci dovevano essere dei medici pel suo male, a saperli trovare, a pagarli bene. Il denaro l'aveva guadagnato apposta, lui! Al suo paese gli avevano fatto credere che rassegnandosi a lasciarsi aprire il ventre... Ebbene, sì, sì! Aspettava il consulto, il giorno fissato, sin dalla mattina, raso e pettinato, seduto nel letto, colla faccia color di terra, ma fermo e risoluto. Ora voleva vederci chiaro nei fatti suoi. - Parlate liberamente, signori miei. Tutto ciò che si deve fare si farà! Gli batteva un po' il cuore. Sentiva un formicolìo come di spasimo anticipato tra i capelli. Ma era pronto a tutto; quasi scoprivasi il ventre, perché si servissero pure. Se un albero ha la cancrena addosso, cos'è infine? Si taglia il ramo! Adesso invece i medici non volevano neppure operarlo. Avevano degli scrupoli, dei ma e dei se. Si guardavano fra di loro e biasciavano mezze parole. Uno temeva la responsabilità; un altro osservò che non era più il caso... oramai... Il più vecchio, una faccia di malaugurio che vi faceva morire prima del tempo, com'è vero Dio, s'era messo già a confortare la famiglia, dicendo che sarebbe stato inutile anche prima, con un male di quella sorta... - Ah... - rispose don Gesualdo, fattosi rauco a un tratto. - Ah... Ho inteso... E si lasciò scivolare pian piano giù disteso nel letto, trafelato. Non aggiunse altro, per allora. Stette zitto a lasciarli finire di discorrere. Soltanto voleva sapere s'era venuto il momento di pensare ai casi suoi. Non c'era più da scherzare adesso! Aveva tanti interessi gravi da lasciare sistemati... - Taci! taci! - borbottò rivolto alla figliuola che gli piangeva allato. Colla faccia cadaverica, cogli occhi simili a due chiodi in fondo alle orbite livide, aspettava la risposta che gli dovevano, infine. Non c'era da scherzare! - No, no... C'è tempo. Simili malattie durano anni e anni... Però... certo... premunirsi... sistemare gli affari a tempo...

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