Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 78

Testo di pubblico dominio

Sono io il malato, infine! Voglio sapere a che punto sono. Il Muscio abbozzò un sorriso che lo fece più brutto. E don Vincenzo Capra, in bel modo, cominciò a spiegare la diagnosi della malattia: Pylori cancer, il pyrosis dei greci. Non s'avevano ancora indizii d'ulcerazione; l'adesione stessa del tumore agli organi essenziali non era certa; ma la degenerescenza dei tessuti accusavasi già per diversi sintomi patologici. Don Gesualdo, dopo avere ascoltato attentamente, riprese: - Tutto questo va benone. Però ditemi se potete guarirmi, vossignoria. Senza interesse... pagandovi secondo il vostro merito... Capra ammutolì da prima e si strinse nelle spalle. - Eh, eh... guarire... certo... siamo qui per cercar di guarirvi... - Il Muscio, più brutale, spifferò chiaro e tondo il solo rimedio che si potesse tentare: l'estirpazione del tumore, un bel caso, un'operazione chirurgica che avrebbe fatto onore a chiunque. Dimostrava il modo e la maniera, accalorandosi nella proposta, accompagnando la parola coi gesti, fiutando già il sangue cogli occhi accesi nel faccione che gli s'imporporava tutto, quasi stesse per rimboccarsi le maniche e incominciare; tanto che il paziente spalancava gli occhi e la bocca, e tiravasi indietro per istinto; e le donne, atterrite, scapparono a gemere e a singhiozzare. - Madonna del Pericolo! - cominciò a strillare Speranza. - Vogliono ammazzarmi il fratello... squartarlo vivo come un maiale! - Chetatevi! - balbettò lui passandosi un lembo del lenzuolo sulla faccia che grondava goccioloni. Gli altri medici tacevano e approvavano più o meno la proposta del dottor Muscio per cortesia. Don Gesualdo, visto che nessuno fiatava, ripigliò a dire: - Chetatevi!... Si tratta della mia pelle... devo dir la mia anch'io... Signori miei... sono un uomo... Non sono un ragazzo... Se dite ch'è necessaria... questa operazione... Se dite che è necessaria... Sissignore... si farà... Però, lasciatemi dir la mia... - È giusto. Parlate. - Ecco... Una cosa sola... Voglio sapere prima se mi garantite la pelle... Siamo galantuomini... Mi fido di voi... Non è un negozio da farsi a occhi chiusi. Voglio vederci chiaro nel mio affare... - Che discorsi son questi! - interruppe il Muscio dimenandosi sulla seggiola. - Io fo il chirurgo, amico mio. Io fo il mio mestiere, e non m'impiccio a far scommesse da ciarlatano! Credete di trattare col Zanni, alla fiera? - Allora non ne facciamo nulla, - rispose don Gesualdo. E gli voltò le spalle. - Andate là, Bomma, che m'avete dato un bel consiglio! Speranza, premurosa, vide giunta l'ora di rivolgersi ai santi, e si diede le mani attorno a procurar reliquie e immagini benedette. Neri pensò che si doveva avvertire subito la figliuola e il genero del pericolo che correva don Gesualdo. Lui non dava più retta. Diceva che di santi e di reliquie ne aveva un fascio, lì nell'armadio di Bianca, insieme alle altre medicine. Non voleva veder nessuno. Giacché era condannato, voleva morire in pace, senza operazioni chirurgiche, lontano dai guai, nella sua campagna. S'attaccava alla vita mani e piedi, disperato. Ne aveva passate delle altre; s'era aiutato sempre da sé, nei mali passi. Coraggio ne aveva, e aveva il cuoio duro anche. Mangiava e beveva; si ostinava a star meglio; si alzava dal letto due o tre ore al giorno; si trascinava per le stanze, da un mobile all'altro. Infine si fece portare a Mangalavite, col fiato ai denti, mastro Nardo da un lato e Masi dall'altro che lo reggevano sul mulo - un viaggio che durò tre ore, e gli fece dire cento volte: - Buttatemi nel fosso, ch'è meglio. Ma laggiù, dinanzi alla sua roba, si persuase che era finita davvero, che ogni speranza per lui era perduta, al vedere che di nulla gliene importava, oramai. La vigna metteva già le foglie, i seminati erano alti, gli ulivi in fiore, i sommacchi verdi, e su ogni cosa stendevasi una nebbia, una tristezza, un velo nero. La stessa casina, colle finestre chiuse, la terrazza dove Bianca e la figliuola solevano mettersi a lavorare, il viale deserto, fin la sua gente di campagna che temeva di seccarlo e se ne stava alla larga, lì nel cortile o sotto la tettoia, ogni cosa gli stringeva il cuore; ogni cosa gli diceva: Che fai? che vuoi? La sua stessa roba, lì, i piccioni che roteavano a stormi sul suo capo, le oche e i tacchini che schiamazzavano dinanzi a lui... Si udivano delle voci e delle cantilene di villani che lavoravano. Per la viottola di Licodia, in fondo, passava della gente a piedi e a cavallo. Il mondo andava ancora pel suo verso, mentre non c'era più speranza per lui, roso dal baco al pari di una mela fradicia che deve cascare dal ramo, senza forza di muovere un passo sulla sua terra, senza voglia di mandar giù un uovo. Allora, disperato di dover morire, si mise a bastonare anatre e tacchini, a strappar gemme e sementi. Avrebbe voluto distruggere d'un colpo tutto quel ben di Dio che aveva accumulato a poco a poco. Voleva che la sua roba se ne andasse con lui, disperata come lui. Mastro Nardo e il garzone dovettero portarlo di nuovo in paese, più morto che vivo. Di lì a qualche giorno arrivò il duca di Leyra, chiamato per espresso, e s'impadronì del suocero e della casa, dicendo che voleva condurselo a Palermo e farlo curare dai migliori medici. Il poveretto, ch'era ormai l'ombra di se stesso, lasciava fare; riapriva anzi il cuore alla speranza; intenerivasi alle premure del genero e della figliuola che l'aspettava a braccia aperte. Gli pareva che gli tornassero già le forze. Non vedeva l'ora d'andarsene, quasi dovesse lasciare il suo male lì, in quella casa e in quei poderi che gli erano costati tanti sudori, e che gli pesavano invece adesso sulle spalle. Il genero intanto occupavasi col suo procuratore a mettere in sesto gli affari. Appena don Gesualdo fu in istato di poter viaggiare, lo misero in lettiga e partirono per la città. Era una giornata piovosa. Le case note, dei visi di conoscenti che si voltavano appena, sfilavano attraverso gli sportelli della lettiga. Speranza, e tutti i suoi, in collera dacché era venuto il duca a spadroneggiare, non si erano fatti più vedere. Ma Nardo aveva voluto accompagnare il padrone sino alle ultime case del paese. In via della Masera si udì gridare: - Fermate! fermate! - E apparve Diodata, che voleva salutare don Gesualdo l'ultima volta, lì, davanti il suo uscio. Però, giunta vicino a lui, non seppe trovare le parole, e rimaneva colle mani allo sportello, accennando col capo. - Ah, Diodata... Sei venuta a darmi il buon viaggio?... - disse lui. Essa fece segno di sì, di sì, cercando di sorridere, e gli occhi le si riempirono di lagrime. - Povera Diodata! Tu sola ti rammenti del tuo padrone... Affacciò il capo allo sportello, cercando forse degli altri, ma siccome pioveva lo tirò indietro subito. - Guarda che fai!... sotto la pioggia... a capo scoperto!... È il tuo vizio antico! Ti rammenti, eh, ti rammenti? - Sissignore, - rispose lei semplicemente, e continuava ad accompagnare le parole coi cenni del capo. - Sissignore, fate buon viaggio, vossignoria. Si staccò pian piano dalla lettiga, quasi a malincuore, e tornò a casa, fermandosi sull'uscio, umile e triste. Don Gesualdo s'accorse allora di mastro Nardo che l'aveva seguìto sin lì, e mise mano alla tasca per regalargli qualche baiocco. - Scusate, mastro Nardo... non ne ho... sarà per un'altra volta, se torniamo a vederci, eh?... se torniamo a vederci... - E si buttò all'indietro, col cuore gonfio di tutte quelle cose che si lasciava dietro le spalle, la viottola fangosa per cui era passato tante volte, il campanile perduto nella nebbia, i fichi d'India rigati dalla pioggia che sfilavano di qua e di là della lettiga. V Parve a don Gesualdo d'entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola. Era un palazzone così vasto che ci si smarriva dentro. Da per tutto cortinaggi e tappeti che non si sapeva dove mettere i piedi - sin dallo scalone di marmo - e il portiere, un pezzo grosso

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Argomenti: tre ore,    cuore gonfio,    sei venuta,    pezzo grosso,    cuoio duro

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