Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 38

Testo di pubblico dominio

Ferdinando stava intento a contare quante persone si vedevano passare attraverso quel pezzetto di strada che intravvedevasi laggiù, fra i tetti delle case che scendevano a frotte per la china del poggio; don Diego dal canto suo seguiva cogli occhi gli ultimi raggi di sole che salivano lentamente verso le alture del Paradiso e di Monte Lauro, e rallegravasi al vederlo scintillare improvvisamente sulle finestre delle casipole che si perdevano già fra i campi, simili a macchie biancastre. Allora sorrideva e appuntava il dito scarno e tremante, spingendo col gomito il fratello, il quale accennava di sì col capo e sorrideva lui pure come un fanciullo. Poi raccontava quello che aveva visto lui: - Oggi ventisette!... ne sono passati ventisette... L'arciprete Bugno era insieme col cugino Limòli!... Per un po' di giorni, verso i primi d'agosto, era venuto soltanto don Ferdinando ad annaffiare i fiori, strascinandosi a stento, coi capelli grigi svolazzanti, sbrodolandosi tutto a ogni passo. Allorché ricomparve anche don Diego, parve di vedere Lazzaro risuscitato: tutto naso, colle occhiaie nere, seppellito vivo in una vecchia palandrana, tossendo l'anima a ogni passo: una tosse fioca che non si udiva quasi più, e scuoteva dalla testa ai piedi lui e il fratello che gli dava il braccio, come andasse facendo la riverenza a ogni vaso di fiori. E fu l'ultima volta. D'allora in poi s'erano viste raramente insieme le teste canute dei due fratelli, dietro i vetri rattoppati colla carta, cercando il sole, don Diego sputando e guardando in terra ogni momento. Il giorno in cui avvenne quel parapiglia nel Palazzo di Città, che le voci si udivano sin nella piazzetta di Sant'Agata, apparve per un istante alla finestra la cima di un berretto bianco tremolante. Ma allorquando la processione di San Giuseppe si fermò dinanzi al portone dei Trao, per l'omaggio tradizionale alla famiglia, le finestre rimasero chiuse, malgrado il vocìo della folla. Don Ferdinando scese per comprare l'immagine del santo, gonfio d'asma, cogli occhi arsi di sonno, piegato in due, le mani nerastre tremanti così che non trovavano quasi nel taschino i due baiocchi per l'immagine. Il procuratore di San Giuseppe, che dirigeva la processione, gli disse: - Vedrete quant'è miracolosa quell'immagine! Tanta salute e provvidenza a tutti, in casa vostra! E gli affidò anche il bastone d'argento del santo, da metterlo al capezzale del malato: un tocca e sana. Eppure non giovò neanche quello. Compare Cosimo e Pelagatti, partendo per la campagna due ore prima dell'alba, o tornando a notte fatta, vedevano sempre il lume alla finestra di don Diego. E il cane nero dei Motta uggiolava per la piazza, come un lamento. Poi, verso nona, bussava al portone il ragazzo di don Luca, portando un bicchiere di latte. Di tanto in tanto veniva don Giuseppe Barabba, con un piatto coperto dal tovagliuolo, o il servitore del Fiscale che recava un fiasco di vino. A poco a poco diradarono anche quelle visite. L'ultima volta il dottor Tavuso se n'era andato scrollando le spalle. I ragazzi del vicinato giuocavano tutto il giorno dietro quel portone che non si apriva più. Una sera, tardi, i vicini, che stavano cenando, udirono la voce chioccia di don Ferdinando chiamare il sagrestano, lì dirimpetto: una voce da far cascare il pan di bocca. E subito dopo un gran colpo al portone sconquassato, e dei passi che si allontanarono frettolosi. Fu giusto quella notte che arrivava la Compagnia d'Arme. Una baraonda per tutto il paese. Al rumore insolito anche don Diego aprì un istante gli occhi. Burgio che era sul ballatoio di casa sua, coll'orecchio teso verso la Piazza Grande, dove udivasi quel parapiglia, vedendo gente nel balcone dei Trao, domandò inquieto: - Che c'è?... Cosa succede? - Don Diego!... - rispose il sagrestano; e fece il segno della croce, quasi massaro Fortunato avesse potuto vederlo al buio. - Solo come un cane!... me lo lasciano sulle spalle!... Ho mandato Grazia pel dottore... a quest'ora!... - Sentite, laggiù, verso la piazza?... sentite?... Che giornata spunterà domattina, Dio liberi!... - Basta avere la coscienza netta, massaro Fortunato. Sono stato sempre un povero diavolo!... Bacio la mano di chi mi dà pane... - Il dottore!... quello sì!... deve avere la tremarella addosso a quest'ora!... E anche il canonico Lupi, dicono!... Buona sera!... I muri hanno orecchie al buio! Infatti il dottor Tavuso, ch'era il capo di tutti i giacobini del paese, e stava nascosto nella legnaia, tremando come una foglia, vide giunta l'ultima sua ora all'udir bussare all'uscio con tanta furia. - Li sbirri!... la Compagnia d'Arme!... Quando gli dissero che era la moglie del sagrestano, invece, la quale veniva a cercarlo per don Diego moribondo, montò in furia come una bestia. - È ancora vivo?... Mandatelo al diavolo!... Vengono a spaventarmi!... a quest'ora!... di questi tempi!... Un padre di famiglia!... Andate a chiamare i suoi parenti piuttosto... o il viatico, ch'è meglio!... La zia Sganci non volle neppure aprire. Barabba rispose dietro il portone, chiuso con tanto di catenaccio: - Buona donna, questi non son tempi di correre di notte per le strade. Domattina, se Dio vuole, chi campa si rivede. Per fortuna, Grazia non aveva di che temere; e suo marito l'avrebbe mandata senza sospetto in mezzo a un reggimento di soldati. L'andare attorno così tardi, in quella tal notte, era proprio uno sgomento. Lo stesso baronello Rubiera, che era uscito di buon'ora dalla casa dei Margarone, s'era fatto accompagnare col lampione. - Ninì! Ninì! - strillò dal balcone donna Fifì con la vocina sottile, quasi il suo fidanzato corresse a buttarsi in un precipizio. - Non temere... no! - rispose lui con la voce grossa. All'udir gente nella piazzetta, dal portone dei Trao, che rimbombò come una cannonata, uscì correndo don Luca: - Signor barone!... sta per morire vostro cugino don Diego!... solo come un cane!... Non c'è nessuno in casa!... Rimpetto al palazzo nero e triste dei Trao splendeva il balcone lucente dei Margarone, e in quella luce disegnavasi l'ombra di donna Fifì, rammentandogli un'altra ombra che soleva aspettarlo altra volta alla finestra del palazzo smantellato. Don Ninì se ne andò frettoloso, a capo chino, portandosi seco negli occhi i ricordi di quella finestra chiusa e senza lume. - Bella porcheria!... Me lo lasciano sulle spalle!... a me solo! - brontolò don Luca tornando nella camera del moribondo. Don Ferdinando stava seduto a piè del letto, senza dir nulla, simile a una mummia. Di tanto in tanto andava a guardare in viso suo fratello; guardava poi don Luca, stralunato, e tornava a chinare il capo sul petto. Alla sfuriata del sagrestano però si rizzò all'improvviso, quasi gli avessero dato uno scossone, e domandò piano, con la voce assonnata di uno che parli in sogno: - Dorme? - Sì, dorme!... Andate a dormire voi pure, se volete!... Ma l'altro non si mosse. Il malato da prima voleva sapere ogni momento che ora fosse; poi, verso mezzanotte, non domandò più nulla. Stava cheto, col naso contro il muro, e la coperta sino alle orecchie. Grazia, di ritorno, aveva accostato l'uscio, messo il lume accanto, sul tavolino, ed era andata a dare una occhiata a casa sua. Il marito si accomodò alla meglio su due sedie. Don Ferdinando, di tratto in tratto, si alzava di nuovo, in punta di piedi, si chinava sul letto, simile a un uccello di malaugurio, e tornava a domandare piano, all'orecchio di don Luca: - Che fa? dorme? - Sì! sì!... Andate a dormire voi pure!... andate! E l'accompagnò lui stesso in camera sua, per liberarsi almeno da quella noia. Don Ferdinando sognava che il cane nero dei vicini Motta gli si era accovacciato sul petto, e non voleva andarsene, per quanto egli cercasse di svincolarsi e di gridare. La coda del cane, lunga, lunga che non finiva più, gli si era attorcigliata al collo e alle braccia, al pari di un serpente, e lo stringeva, soffocandolo, gli strozzava la voce in gola, quando udì

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