Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 34

Testo di pubblico dominio

gusto spendere i denari, per non goderne né noi né gli altri! - Lasciamo stare queste sciocchezze, e parliamo di cose serie! - interruppe il canonico che s'era rannuvolato in viso. - C'è un casa del diavolo. Cercano di aizzarvi contro tutto il paese, dicendo che avete le mani lunghe, e volete acchiappare quanta terra si vede cogli occhi, per affamare la gente... Quella bestia di Ciolla va predicando per conto loro... Vogliono scatenarci contro anche i villani... a voi e a me, caro mio! Dicono che io tengo il sacco... Non posso uscir di casa... Don Gesualdo scrollava le spalle. - Ah, i villani? Ne riparleremo poi, quando verrà l'inverno. Voi che paura avete? - Che paura ho, per... mio!... Non sapete che a Palermo hanno fatto la rivoluzione. Andò a chiudere l'uscio in punta di piedi, e tornò cupo, nero in viso. - La Carboneria, capite!... Anche qui hanno portato questa bella novità! Posso parlare giacché non l'ho avuta sotto il suggello della confessione. Abbiamo la sètta anche qui! E spiegò cos'era la faccenda: far legge nuova e buttar giù coloro che avevano comandato sino a quel giorno. - Una sètta, capite? Tavuso, mettiamo, al posto di Margarone; e tutti quanti colle mani in pasta! Ogni villano che vuole il suo pezzo di terra! pesci grossi e minutaglia, tutti insieme. Dicono che vi è pure il figlio del Re, nientemeno! Il Duca di Calabria. Don Gesualdo, ch'era stato ad ascoltare con tanto d'occhi aperti, scappò a dire: - S'è così... ci sto anch'io! non cerco altro!... E me lo dite con quella faccia? Mi avete fatto una bella paura, santo Dio! L'altro rimase a bocca aperta: - Che scherzate? O non sapete che voglia dire rivoluzione? Quel che hanno fatto in Francia, capite? Ma voi non leggete la storia... - No, no, - disse don Gesualdo. - Non me ne importa. - Me ne importa a me: Rivoluzione vuol dire rivoltare il cesto, e quelli ch'erano sotto salire a galla: gli affamati, i nullatenenti!... - Ebbene? Cos'ero io vent'anni fa? - Ma adesso no! Adesso avete da perdere, cristiano santo! Sapete com'è? Oggi vogliono le terre del comune; e domani poi vorranno anche le vostre e le mie! Grazie! grazie tante! Non ho dato l'anima al diavolo tanti anni per... - Appunto! Bisogna aiutarsi per non andare in fondo al cesto, caro canonico! Bisogna tenersi a galla, se non vogliamo che i villani si servano colle sue mani. Li conosco... so fare, non dubitate. E spiegò meglio la sua idea: cavar le castagne dal fuoco con le zampe del gatto; tirar l'acqua al suo mulino, e se capitava d'acchiappare anche il mestolo un quarto d'ora, e di dare il gambetto a tutti quei pezzi grossi che non era riescito ad ingraziarsi neppure sposando una di loro, senza dote e senza nulla, tanto meglio... Gli andarono in quel momento gli occhi su Bianca che stava rincantucciata sul canapè, smorta in viso dalla paura, guardando or questo e or quello, e non osava aprir bocca. - Non parlo per te, sai. Non me ne pento di quel che ho fatto. Non è stata colpa tua. Tutti i negozi non riescono a un modo. Poi se capita di fare il bene, nel tempo stesso... Il canonico cominciava a capacitarsi, cogli occhi e la bocca di traverso, pensieroso, e appoggiava anche lui il discorso del socio: - Non si voleva torcere un pelo a nessuno... se si arrivava ad afferrare il mestolo un po' di tempo... quante cose si farebbero... - Voi dovreste farne una!... - interruppe don Gesualdo. - Parlare con chi ha le mani in questa faccenda, e dire che vogliamo esserci anche noi. - Eh? Che dite?... un sacerdote! - Lasciate stare, canonico!... Poi se vi è il figlio del Re, potete esserci anche voi! - Caspita! Al figlio del Re non gliela tagliano la testa, se mai! - Non temete, che non ve la tagliano la testa! Già, se è come avete detto, dovrebbero tagliarla a un paese intero. Credete che non abbia fatto i miei conti, in questo tempo?... Quando saremo lì, a veder quel che bolle in pentola... Bisogna mettersi vicino al mestolo... con un po' di giudizio... col danaro... So io quello che dico. Bianca cominciò allora a balbettare: - Oh Signore Iddio!... Cosa pensate di fare?... Un padre di famiglia!... - Il canonico, indeciso, la guardava turbato, quasi sentisse il laccio al collo. Don Gesualdo per rassicurarlo soggiunse: - No, no. Mia moglie non sa cosa dice... Parla per soverchia affezione, poveretta. - Poscia, mentre accompagnava il suo socio in anticamera, soggiunse: - La vedete? Comincia ad affezionarmisi. Già i figliuoli sono un gran legame. Speriamo almeno che abbiano ad esser felici e contenti loro; giacché io... Volete che ve la dica, eh, canonico, come in punto di morte? Mi sono ammazzato a lavorare... Mi sono ammazzato a far la roba... Ora arrischio anche la pelle, a sentir voi!... E che ne ho avuto, eh? ditelo voi!... II C'era un gran fermento in paese. S'aspettavano le notizie di Palermo. Bomma che teneva cattedra nella farmacia, e Ciolla che sbraitava di qua e di là. Degli arruffapopolo stuzzicavano anche i villani con certi discorsi che facevano spalancare loro gli occhi: Le terre del comune che uscivano di casa Zacco dopo quarant'anni... un prezzo che non s'era mai visto l'eguale!... Quel mastro-don Gesualdo aveva le mani troppo lunghe... Se avevano fatto salire le terre a quel prezzo voleva dire che c'era ancora da guadagnarci su!... Tutto sangue della povera gente! Roba del comune... Voleva dire che ciascuno ci aveva diritto!... Allora tanto valeva che ciascuno si pigliasse il suo pezzetto! Fu una domenica, la festa dell'Assunta. La sera innanzi era arrivata una lettera da Palermo che mise fuoco alla polvere, quasi tutti l'avessero letta. Dallo spuntare del giorno si vide la Piazza Grande piena zeppa di villani: un brulichìo di berrette bianche; un brontolìo minaccioso. Fra Girolamo dei Mercenari, che era seduto all'ombra, insieme ad altri malintenzionati, sugli scalini dinanzi allo studio del notaro Neri, come vide passare il barone Zacco colla coda fra le gambe, gli mostrò la pistola che portava nel manicone. - La vedete, signor barone?... Adesso è finito il tempo delle prepotenze!... D'ora innanzi siam tutti eguali!... - Correva pure la voce dei disegni che aveva fatto fra Girolamo: lasciar la tonaca nella cella, e pigliarsi una tenuta a Passaneto, e la figliuola di Margarone in moglie, la più giovane. Il notaro ch'era venuto a levar dallo studio certe carte interessanti, dovette far di cappello a fra Girolamo per entrare: - Con permesso!... signori miei!... - Poi andò a raggiungere don Filippo Margarone nella piazzetta di Santa Teresa: - Sentite qua; ho da dirvi una parola!... - E lo prese per un braccio, avviandosi verso casa, seguitando a discorrere sottovoce. Don Filippo allibbiva ad ogni gesto che il notaro trinciava in aria; ma si ostinava a dir di no, giallo dalla paura. L'altro gli strinse forte il braccio, attraversando la viuzza della Masera per salire verso Sant'Antonio. - Li vedete? li sentite? Volete che ci piglino la mano, i villani, e ci facciano la festa? - La piazza, in fondo alla stradicciuola, sembrava un alveare di vespe in collera. Nanni l'Orbo, Pelagatti, altri mestatori, eccitatissimi, passavano da un crocchio all'altro, vociferando, gesticolando, sputando fiele. Gli avventori di mastro Titta si affacciavano ogni momento sull'uscio della bottega, colla saponata al mento. Nella farmacia di Bomma disputavasi colle mani negli occhi. Dirimpetto, sul marciapiede del Caffè dei Nobili, don Anselmo il cameriere aveva schierate al solito le seggiole ai fresco; ma non c'era altri che il marchese Limòli, col bastone fra le gambe, il quale guardava tranquillamente la folla minacciosa. - Cosa vogliono, don Anselmo? Che diavolo li piglia oggi? Lo sapete? - Vogliono le terre del comune, signor marchese. Dicono che sinora ve le siete godute voialtri signori, e che adesso tocca a noi, perché siamo tutti eguali. - Padroni! padronissimi! Quanto a me non dico di no! Tutti eguali!... Portatemi un bicchier d'acqua, don Anselmo. Di tanto in tanto dal Rosario o dalla via di San

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