Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 36

Testo di pubblico dominio

statua dell'Immacolata: una cosa da fare accapponar la pelle, quella sera! Egli allora si sentì stringere il cuore da una tenerezza insolita, pensando alla casa e ai parenti. - Povera Bianca! Avete visto? È buona, sì, in fondo... Non lo credevo, davvero!... - Zitto! - interruppe il canonico. - Se vi fate conoscere alla voce, è inutile nascondersi e sudare come bestie! Ogni momento andava voltandosi, temendo di essere spiati. Arrivati nella via di San Giovanni videro un'ombra che andava in su verso la piazza, e il canonico disse piano: - Vedete?... È uno dei nostri!... Va dove andiamo noi. Era in un magazzino di Grancore, giù nelle stradicciuole tortuose verso San Francesco, che sembravano fatte apposta. Una casetta bassa che aveva una finestra illuminata per segnale. Si bussavano tre colpi in un certo modo alla porticina dove si giungeva scendendo tre scalini; si attraversava un gran cortile oscuro e scosceso, e in fondo c'era uno stanzone buio dove si capiva che stava molta gente a confabulare insieme dal sussurrìo che si udiva dietro l'uscio. Il canonico disse: - È qui! - e fece il segnale convenuto. Tutti e due col cuore che saltava alla gola. Per fortuna in quel momento giunse un altro congiurato, imbacuccato come loro, camminando in punta di piedi sui sassi del cortile, e ripeté il segnale istesso. - Don Gesualdo, - disse il notaro Neri cavando il naso da una gran sciarpa. - Siete voi? Vi ho riconosciuto al canonico che sembra un cucco, poveraccio! Il notaro la pigliava allegramente. Narrava che a Palermo avevano fatto il pasticcio; avevano ammazzato il principe di Aci e s'erano impadroniti di Castellammare: - Chi comanda adesso è un prete, certo Ascenso! - Ah? - rispose il canonico che si sentiva in causa. - Ah? - Silenzio per ora!... Andiamo adagio! Sapete com'è?... a chi deve prima attaccare il campanello al gatto! E ogni galantuomo non vorrebbe mettere il piede in trappola. Ma se siamo in tanti... C'è anche il barone Zacco stasera. - Che aspettiamo ad entrare, signori miei? - interruppe don Gesualdo a quella notizia, coraggioso come un leone. Quando tornarono ad uscire, dopo un gran pezzo, erano tutti più morti che vivi. Bomma sforzavasi di fare il gradasso; Tavuso non diceva una parola; e il notaro stava soprapensieri anche lui. Zacco corse ad attaccarsi al braccio di don Gesualdo, quasi fossero divenuti fratelli davvero. - Sentite, cugino, ho da parlarvi. - E seguitarono ad andare a braccetto in silenzio. - Ssst!... un fischio!... verso i Cappuccini!... - Il barone mise mano alla pistola: tutti con un gran batticuore. Si udirono abbaiare dei cani. - Fermo!... - esclamò il canonico sottovoce, afferrando il braccio armato del barone che mirava al buio, - è fra Girolamo, che non vuol esser visto da queste parti! - Appena si udì richiudere l'uscio, nel vano del quale era balenata una sottana bianca, il farmacista borbottò col fiato ai denti: - L'abbiamo scappata bella, parola d'onore! - Il barone invece strinse forte il braccio di don Gesualdo senza dir nulla. Poi lasciò andare ciascuno per la sua strada, Bomma in su, verso la Piazza Grande, il canonico a piè della scalinata che saliva a San Sebastiano. - Da questa parte, don Gesualdo... venite con me. - E gli fece fare il giro lungo pei Cappuccini, risalendo poi verso Santa Maria di Gesù per certe stradicciuole buie che non si sapeva dove mettere i piedi. A un tratto si fermò guardando faccia a faccia il suo amico novello con certi occhi che luccicavano al buio. - Don Gesualdo, avete sentito quante belle chiacchiere? Adesso siamo tutti fratelli. Nuoteremo nel latte e nel miele, d'ora in poi... Voi che ci credete, eh? L'altro non disse né sì né no, prudente, aspettando il seguito. - Io no... Io non mi fido di tutti questi fratelli che non mi ha partorito mia madre. - Allora perché siete venuto, vossignoria? - Per non farci venire voi, caspita! Io non fo misteri. Giuochiamo a tagliarci l'erba sotto i piedi fra di noi che abbiamo qualcosa da perdere, ed ecco il bel risultato! Far la minestra per i gatti, e arrischiare la roba e la testa!... Io bado ai miei interessi, come voi... Non ho i fumi che hanno tanti altri... Parenti! parentissimi! quanto a me volentieri... Allora mettiamoci d'accordo piuttosto fra di noi... - Ebbene? che volete fare? - Ah? che voglio fare? La pigliate su quel verso? Mi fate lo gnorri?... Allora sia per non detto... Ciascuno il suo interesse! Fratelli! Carbonari! Faremo la rivoluzione! metteremo il mondo a soqquadro anche!... Io non ho paura!... - Nel calore della disputa il barone si era addossato all'uscio di un cortile. Un cane si mise a latrare furiosamente. Zacco spaventato se la diede a gambe colla pistola in pugno, e don Gesualdo dietro di lui, ansante. Prima di giungere in piazza di Santa Maria di Gesù, uno che andava correndo lo fermò mettendogli la mano sul petto. - Signor don Gesualdo!... dove andate?... c'è la giustizia a casa vostra! Quello che temeva il canonico! quello che temeva Bianca! Egli correva al buio, senza saper dove, con una gran confusione in testa, e il cuore che voleva uscirgli dal petto. Poi, udendo colui che gli arrancava dietro, con un certo rumore quasi picchiasse in terra col bastone, gli disse: - E tu chi sei? - Nardo, il manovale, quello che ci lasciò la gamba sul ponte. Non mi riconoscete più, vossignoria? Donna Bianca mi ha mandato a svegliare di notte. E narrava com'era arrivata la Compagnia d'Arme, all'improvviso, a quattr'ore di notte. Il Capitano e altri Compagni d'Arme erano in casa di don Gesualdo. Lassù, verso il Castello, vedevansi luccicare dei lumi; c'era pure una lanterna appesa dinanzi alla porta dello stallatico, al Poggio, e dei soldati che strigliavano. Più in là, nelle vicinanze della Piazza Grande, si udivano di tanto in tanto delle voci: un mormorio confuso, dei passi che risuonavano nella notte, dei cani che abbaiavano per tutto il paese. Don Gesualdo si fermò a riflettere: - Dove andiamo, vossignoria? - chiese Nardo. - Ci ho pensato. Non far rumore. Ah! Madonna Santissima del Pericolo! Va a chiamare Nanni l'Orbo. Lo conosci? il marito di Diodata? Cominciava ad albeggiare. Ma nelle viottole fuori mano che avevano preso non s'incontrava ancora anima viva. La casuccia di Diodata era nascosta fra un mucchio di casupole nerastre e macchie di fichi d'India, dove il fango durava anche l'estate. C'era un pergolato sul ballatoio, e un lume che trapelava dalle imposte logore. - Bussa tu, se mai... - disse don Gesualdo. Diodata al vedersi comparire dinanzi il suo antico padrone ansante e trafelato si mise a tremare come una foglia. - Che volete da me a quest'ora?... Per l'amor di Dio! lasciatemi in pace, don Gesualdo!... Se torna mio marito!... È uscito or ora, per cogliere quattro fichi d'India!... qui accanto. - Bestia! - disse lui. - Ho altro pel capo! Ci ho la giustizia alle calcagna!... - Che c'è? - chiese Diodata spaventata. Egli colla mano le fece segno di star zitta. In quel momento tornò correndo compare Nardo; la gamba di legno si udiva da lontano sull'acciottolato. - Eccolo!... eccolo che viene!... Entrò Nanni l'Orbo, torvo, colla canna da cogliere i fichi d'India in spalla, e gli occhi biechi che fulminavano di qua e di là. Invano Diodata, colle braccia in croce, giurava e spergiurava. - Padron mio! - esclamò Nanni, - a che giuoco giuochiamo? Questa non è la maniera!... - Bestia! - gridò infine don Gesualdo, scappandogli la pazienza. - Ho la forca dinanzi agli occhi, e tu vieni a parlarmi di gelosia! Allo strepito accorsero i vicini. - Lo vedete? - ripigliò Nanni infuriato. - Che figura fo dinanzi a loro, padron mio? In coscienza, quel po' che avete dato a costei per maritarla è una miseria, in confronto della figura che mi fate fare! - Taci! Farai correre gli sbirri con quel chiasso! Che vuoi? Ti darò quello che vuoi!... - Voglio l'onor mio, don Gesualdo! L'onor mio che non si compra a denari! Cominciarono ad abbaiare anche i cani del vicinato. - Vuoi la chiusa del

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Argomenti: giro lungo,    antico padrone,    cortile oscuro,    certo rumore

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