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Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 70lì, e dammi il fatto tuo! - Vuol dire che difendete il Borbone? Parlate chiaro. - Io difendo la mia roba, caro voi! Ho lavorato... col mio sudore... Allora... va bene... Ma adesso non ho più motivo di fare il comodo di coloro che non hanno e non posseggono... - E allora ve la fanno a voi, capite! Vi saccheggiano la casa e tutto! Il canonico aggiunse che veniva nell'interesse di coloro che avevano da perdere e dovevano darsi la mano, in quel frangente, pel bene di tutti... Se no, non ci avrebbe messo i piedi in casa sua... dopo il tiro che gli aveva giocato per l'appalto dello stradone... - Scusate! Giacché volete fare il sordo... Sapete che avete tanti nemici! Invidiosi... quel che volete... Intanto non vi guardano di buon occhio... Dicono che siete peggio degli altri, ora che avete dei denari. Questo è il tempo di spenderli, i denari, se volete salvar la pelle! A quel punto prese la parola anche don Ninì: - Lo sapete che ci accusano di aver fatto uccidere Nanni l'Orbo... per chiudergli la bocca... Voi pel primo!... Mi dispiace che m'hanno visto venire con mia moglie, l'altra sera... - Già, - osservò il canonico, - siamo giusti. Chi poteva avere interesse che compare Nanni non chiacchierasse tanto?... Una bocca d'inferno, signori miei! La storia di Diodata la sa tutto il paese. Ora vi scatenano contro anche i figliuoli... vedrete, don Gesualdo! - Va bene, - rispose don Gesualdo. - Vi saluto. Non posso lasciar mia moglie in quello stato per ascoltar le vostre chiacchiere. - E volse loro le spalle. - Ah, - soggiunse il canonico andandogli dietro su per le scale. - Scusate, non ne sapevo nulla. Non credevo che fossimo già a questo punto... Giacché erano lì non potevano fare a meno di salire un momento a veder donna Bianca, lui e il baronello. Don Ninì si fermò all'uscio col cappello in mano, senza dire una parola, e il canonico, che se ne intendeva, dopo un po' fece cenno col capo a don Gesualdo, come a dirgli di sì, ch'era ora. - Io me ne vo, - disse don Ninì rimettendosi il cappello. - Scusatemi tanto, io non ci reggo. C'era già don Ferdinando Trao al capezzale, come una mummia, e la zia Macrì, la quale asciugava il viso alla nipote con un fazzoletto di tela fine. Le Zacco erano pallide della nottata persa, e donna Lavinia non si reggeva più in piedi. Sopraggiunse il marchese Limòli insieme al confessore. Donna Agrippina allora li mise fuori tutti quanti. Don Gesualdo, dietro a quell'uscio chiuso, si sentiva un gruppo alla gola, quasi gli togliessero prima del tempo la sua povera moglie. - Ah!... - borbottò il marchese. - Che commedia, povera Bianca! Noi restiamo qui per assistere ogni giorno alla commedia, eh, don Ferdinando!... Anche la morte s'è scordata che ci samo al mondo noi!... Don Ferdinando stava a sentire, istupidito. Tratto tratto guardava timidamente di sottecchi il cognato che aveva gli occhi gonfi, la faccia gialla e ispida di peli, e faceva atto d'andarsene, impaurito. - No, - disse il marchese. - Non potete lasciare la sorella in questo punto. Siete come un bambino, caspita! Entrò in quel mentre il barone Mèndola, col fiato ai denti, cominciando dallo scusarsi a voce alta: - Mi dispiace... Non ne sapevo nulla... Non credevo... - Poi, vedendosi intorno quei visi e quel silenzio, abbassò la voce e andò a finire il discorso in un angolo, all'orecchio del barone Zacco. Costui tornava a parlare della nottata che avevano persa: le sue ragazze senza chiudere occhio, Lavinia che non si reggeva in piedi. Don Gesualdo guardava è vero stralunato di qua e di là, ma si vedeva che non gli dava retta. In quella tornò ad uscire il prete, strascicando i piedi, con una commozione che gli faceva tremar le labbra cadenti, povero vecchio. - Una santa!... - disse al marito. - Una santa addirittura! Don Gesualdo affermò col capo, col cuore gonfio anche lui. Bianca ora stava supina, cogli occhi sbarrati, il viso come velato da un'ombra. Donna Agrippina preparava l'altare sul comò, con la tovaglia damascata e i candelieri d'argento. A che gli giovava adesso avere i candelieri d'argento? Don Ferdinando andava toccando ogni cosa, proprio come un bambino curioso. Infine si piantò ritto dinanzi al letto, guardando la sorella che stava facendo i conti con Domeneddio in quel momento, e si mise a piangere e a singhiozzare. Piangevano tutti quanti. In quell'istante fece capolino dall'uscio donna Sarina Cirmena, scalmanata, col manto alla rovescia, esitante, guardando intorno per vedere come l'avrebbero accolta, cominciando diggià a fregarsi gli occhi col fazzoletto ricamato. - Scusate! Perdonate! Io non ci ho il pelo nello stomaco... Ho sentito che mia nipote... Il cuore l'ho qui, di carne!... L'ho tenuta come una figliuola!... Bianca!... Bianca!... - No, zia! - disse donna Agrippina. - S'aspetta il viatico. Non la disturbate adesso con pensieri mondani... - È giusto, - disse donna Sarina. - Scusatemi, don Gesualdo. Dopo che si fu comunicata, Bianca parve un po' più calma. L'affanno era cessato, e arrivò a balbettare qualche parola. Ma aveva una voce che s'udiva appena. - Vedete? - disse donna Agrippina. - Vedete, ora che si è messa in grazia di Dio!... Alle volte il Signore fa il miracolo. - Le misero sul petto la reliquia della Madonna. Donna Agrippina si tolse il cingolo della tonaca per ficcarglielo sotto il guanciale. La zia Cirmena portava esempi di guarigioni miracolose: tutto sta ad avere fede nei santi e nelle reliquie benedette: il Signore può far questo ed altro. Lo stesso don Gesualdo allora si mise a piangere come un bambino. Anche lui! - borbottò donna Sarina, fingendo di parlare all'orecchio della Macrì. - Anche lui, il cuore non l'ha cattivo in fondo. Non capisco però come Isabella non sia venuta... duchessa o no!... Mamme ne abbiamo una sola!... Se bisognava fare tante storie per arrivare a questo bel risultato... - È un porco!... un infame!... un assassino! - seguitò a brontolare don Gesualdo, stralunato, colle labbra strette, gli occhi accesi che pareva un pazzo. - Eh? che cosa? - domandò la Cirmena. - Ssst! ssst! - interruppe donna Agrippina. Il barone Mèndola si chinò all'orecchio di Zacco per dirgli qualche cosa. L'altro scosse il testone arruffato e gonfio due o tre volte. La baronessa aprofittò del buon momento per indurre don Gesualdo a pigliare un po' di ristoro dalle mani stesse di Lavinia. - Sì, un po' di brodo, due giorni che non apriva bocca il pover'uomo!... Come passarono nella stanza accanto, che dava sulla strada, si udì da lontano un rumore che pareva del mare in tempesta. Mèndola narrò allora quello che aveva visto nel venire. - Sissignore! Hanno messo la bandiera sul campanile. Dicono ch'è il segno di abolire tutti i dazi e la fondiaria. Perciò or ora faranno la dimostrazione. Il procaccia delle lettere ha portato la notizia che a Palermo l'hanno già fatta... e anche in tutti i paesi lungo la strada. Sicché sarebbe una porcheria a non farla anche qui da noi... Infine cosa può costare? La banda, quattro palmi di mussolina... Guardate! guardate!... Dalla via del Rosario spuntava una bandiera tricolore in cima a una canna, e dietro una fiumana di gente che vociava e agitava braccia e cappelli in aria. Di tanto in tanto partiva anche una schioppettata. Il marchese, ch'era sordo come una talpa, domandò: - Eh? Che c'è? Il finimondo c'era! Don Gesualdo rimase colla chicchera in mano. S'udì in quel punto una forte scampanellata all'uscio, e Zacco corse a vedere. Dopo un momento sporse il capo dall'uscio dell'anticamera, e chiamò a voce alta: - Marchese! Marchese Limòli! Rimasero a discutere sottovoce nell'altra stanza. Pareva che il barone mettesse buone parole con un terzo che era arrivato allora, e il marchese andasse scaldandosi. - No! no! è una porcheria! - In quella rientrò Zacco, solo, col viso acceso. - Sentite, don Gesualdo!... Un momento... una parolina... La folla era giunta lì, sotto la casa; si vedeva la bandiera all'altezza del balcone, quasi volesse entrare. 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