Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 72

Testo di pubblico dominio

Gesualdo, mentre fuggiva celandosi il viso nel fazzoletto. Così tornò a galla la storia di Nanni l'Orbo il quale s'era accollata la ganza di don Gesualdo coi figliuoli, dei poveri trovatelli che andavano a zappare nei campi del genitore per guadagnarsi il pane, e gli baciavano le mani per giunta, come quella bestia di Diodata che a chi gli dava un calcio rispondeva grazie. Dài e dài erano arrivati a scatenargli contro anche loro, una sera che li avevano tirati in quelle chiacchiere all'osteria, e i due ragazzacci non possedevano neppure di che pagar da bere agli amici. Don Gesualdo si vide comparire a quell'ora Nunzio, il più ardito. - Il nome del nonno, sì glielo aveva dato; ma la roba no! - Per poco non s'accapigliarono, padre e figlio. Si fece un gran gridare, una lite che durò mezz'ora. Accorse anche Diodata, coi capelli per aria, vestita di nero. Nunzio, ubbriaco fradicio, pretendeva il fatto suo lì su due piedi, e gliene disse di tutte le specie, a lei e a lui. Lo zio Santo, che s'era accomodato col fratello, dopo la morte della cognata, aiutandolo a passar l'angustia, mangiando e bevendo alla sua barba, afferrò la stanga per metter pace. Il povero don Gesualdo andò a coricarsi più morto che vivo. In mezzo a tanti dispiaceri s'era ammalato davvero. Gli avvelenavano il sangue tutti i discorsi che sentiva fare alla gente. Don Luca il sagrestano, il quale gli s'era ficcato in casa, quasi fosse già l'ora di portargli l'olio santo, pretendeva che don Gesualdo dovesse aprire i magazzini alla povera gente, se voleva salvare l'anima e il corpo. Lui ci aveva cinque figliuoli sulle spalle, cinque bocche da sfamare, e la moglie sei. Mastro Titta, quand'era venuto a cavargli il sangue, gli cantò il resto, colla lancetta in aria: - Vedete? Se non mettono giudizio, certuni, va a finir male, stavolta! La gente non ne può più! Sono quarant'anni che levo pelo e cavo sangue, e sono ancora quello di prima, io! Don Gesualdo, malato, giallo, colla bocca sempre amara, aveva perso il sonno e l'appetito; gli erano venuti dei crampi allo stomaco che gli mettevano come tanti cani arrabbiati dentro. Il barone Zacco era il solo amico che gli fosse rimasto. E la gente diceva pure che doveva averci il suo interesse a fargli l'amico, qualche disegno in testa. Veniva a trovarlo sera e mattina, gli conduceva la moglie e le figliuole, vestiti di nero tutti quanti, che annebbiavano una strada. Gli lasciava la sua ragazza per curarlo: - Lavinia ci ha la mano apposta, per far decotti. - Lavinia è un diavolo, per tener d'occhio una casa. - Lasciate fare a Lavinia che sa dove metter le mani. - Dall'altro canto poi faceva il viso brusco se Diodata aveva la faccia di farsi vedere ancora lì, da don Gesualdo, con il fazzoletto nero in testa, carica di figliuoli, di già canuta e curva come una vecchia: - No, no, buona donna. Non abbiamo bisogno di voi! Badate ai fatti vostri piuttosto, ché qui la cuccagna è finita. - Poscia in confidenza spifferava anche delle paternali all'amico. - Che diavolo ne fate di quella vecchia?... Non vi conviene di lasciarvela bazzicar fra i piedi colei, ora ch'è vedova!... Dopo che l'avete avuta in casa anche da zitella... Il mondo, sapete bene, ha la lingua lunga! Poi, quell'altra storia... la morte di suo marito... È vero che se lo meritava!... Ma infine è meglio chiudere la bocca alla gente!... Del resto, non avete bisogno di nulla, ora che ci abbiamo qui la mia ragazza. Lui stesso si faceva in quattro a disporre e a ordinare nella casa del cugino don Gesualdo, a ficcare il naso in tutti i suoi affari, a correre su e giù con le chiavi dei magazzini e della cantina. Gli consigliava pure di mettere a frutto il denaro contante, se ce ne aveva in serbo, caso mai le faccende s'imbrogliassero peggio. - Datelo a mutuo, col suo bravo atto dinanzi notaio... un po' per uno, a tutti coloro che gridano più forte perché non hanno nulla da perdere, e minacciano adesso di scassinarvi i magazzini e bruciarvi la casa. Taceranno, per adesso. Poi, se arrivano a pigliarsi le terre del comune, voi ci mettete subito una bella ipoteca. Le cose non possono andare sempre a questo modo. I tempi torneranno a cambiare, e voi vi avrete messo sopra le unghie a tempo. Ma lui non voleva sentir parlare di denaro. Diceva che non ne aveva, che suo genero l'aveva rovinato, che preferiva riceverli a schioppettate, quelli che venivano a bruciargli la casa o a scassinargli i magazzini. Era diventato una bestia feroce, verde dalla bile, la malattia stessa gli dava alla testa. Minacciava: - Ah! La mia roba? Voglio vederli! Dopo quarant'anni che ci ho messo a farla... un tarì dopo l'altro!... Piuttosto cavatemi fuori il fegato e tutto il resto in una volta, ché li ho fradici dai dispiaceri... A schioppettate! Voglio ammazzarne prima una dozzina! A chi ti vuol togliere la roba levagli la vita! Perciò aveva armato Santo e mastro Nardo, il vecchio manovale, con sciabole e carabine. Teneva il portone sbarrato, due mastini feroci nel cortile. Dicevasi che in casa sua ci fosse un arsenale; che la sera ricevesse Canali, il marchese Limòli, dell'altra gente ancora, per congiurare, e un bel mattino si sarebbero trovate le forche in piazza, e appesi tutti coloro che avevano fatto la rivoluzione. I pochi amici perciò l'avevano abbandonato, onde non esser visti di cattivo occhio. E Zacco correva davvero un brutto rischio continuando ad andare da lui e a condurgli tutta la famiglia. - Peccato che con voi ci si rimette il ranno e il sapone! - gli disse però più di una volta. Sua moglie infine, vedendo che non si veniva a una conclusione con quell'uomo, lasciò scoppiare la bomba, un giorno che don Gesualdo s'era appisolato sul canapè, giallo come un morto, e la sua ragazza gli faceva da infermiera, messa a guardia accanto alla finestra. - Scusatemi, cugino! Sono madre, e non posso più tacere, infine... Tu, Lavinia, vai di là, ché ho da parlare col cugino don Gesualdo... Ora che non c'è più la mia ragazza, apritemi il cuore, cugino mio... e ditemi chiaro la vostra intenzione... Quanto a me ci avrei tanto piacere... ed anche il barone mio marito... Ma bisogna parlarci chiaro... Il poveraccio spalancò gli occhi assonnati, ancora disfatto dalla colica: - Eh? Che dite? Che volete? Io non vi capisco. - Ah! Non mi capite? Allora che ci sta a far qui la mia Lavinia? Una zitella! Siete vedovo finalmente, e gli anni del giudizio li dovete anche avere, per pigliare una risoluzione, e sapere quel che volete fare! - Niente. Io non voglio far niente. Voglio stare in pace, se mi ci lasciano stare... - Ah? Così? Stateci pure a comodo vostro... Ma intanto non è giusto... capite bene!... Sono madre... E stavolta, risoluta, ordinò alla figliuola di prendere il manto e venirsene via. Lavinia obbedì, furibonda anche lei. Tutt'e due, uscendo da quella casa per l'ultima volta, fecero tanto di croce sulla soglia. - Una galera, quella baracca! La povera cugina Bianca ci aveva lasciato le ossa col mal sottile! - Zacco la sera stessa andò a far visita al barone Rubiera, invece di annoiarsi con quel villano di mastro-don Gesualdo che passava la sera a lamentarsi, tenendosi la pancia, all'oscuro, per risparmiare il lume. - Mi volete, eh? cugino Rubiera... donna Giuseppina... Don Ninì era uscito per assistere a certo conciliabolo in cui si trattavano affari grossi. Intanto che aspettava, il barone Zacco volle fare il suo dovere colla baronessa madre, ch'era stato un pezzo senza vederla. La trovò nella sua camera, inchiodata nel seggiolone di faccia al letto matrimoniale, accanto al quale era ancora lo schioppo del marito, buon'anima, e il crocifisso che gli avevano messo sul petto in punto di morte, imbacuccata in un vecchio scialle, e colle mani inerti in grembo. Appena vide entrare il cugino Zacco si mise a piangere di tenerezza, rimbambita: delle lagrime grosse e silenziose che si gonfiavano a poco a poco negli occhi torbidi, e scendevano lentamente giù per le guance floscie. - Bene,

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Argomenti: povero don,    fazzoletto nero,    brutto rischio,    certo conciliabolo

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