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Mastro don Gesualdo di Giovanni Verga pagina 5finestre d'ogni grandezza, qua e là, come capitava; il portone signorile incastrato in mezzo a facciate da catapecchie. Il fabbricato occupava quasi tutta la lunghezza del vicoletto. La baronessa, discorrendo sottovoce col canonico Lupi, s'era quasi dimenticata del cugino, il quale veniva dietro passo passo. Ma giunti al portone il canonico si tirò indietro prudentemente: - Un'altra volta; tornerò poi. Adesso vostro cugino ha da parlarvi. Fate gli affari vostri, don Diego. - Ah, scusate, cugino. Entrate, entrate pure. Fin dall'androne immenso e buio, fiancheggiato di porticine basse, ferrate a uso di prigione, si sentiva di essere in una casa ricca: un tanfo d'olio e di formaggio che pigliava alla gola; poi un odore di muffa e di cantina. Dal rastrello spalancato, come dalla profondità di una caverna, venivano le risate di Alessi e della serva che riempivano i barili, e il barlume fioco del lumicino posato sulla botte. - Rosaria! Rosaria! - tornò a gridare la baronessa in tono di minaccia. Quindi rivolta al cugino Trao: - Bisogna darle spesso la voce, a quella benedetta ragazza; perché quando ci ha degli uomini sottomano è un affar serio! Ma del resto è fidata, e bisogna aver pazienza - Che posso farci?... Una casa piena di roba come la mia!... Più in là, nel cortile che sembrava quello di una fattoria, popolato di galline, di anatre, di tacchini, che si affollavano schiamazzando attorno alla padrona, il tanfo si mutava in un puzzo di concime e di strame abbondante. Due o tre muli, della lunga fila sotto la tettoia, allungarono il collo ragliando; dei piccioni calarono a stormi dal tetto; un cane da pecoraio, feroce, si mise ad abbaiare, strappando la catena; dei conigli allungavano pure le orecchie inquiete, dall'oscurità misteriosa della legnaia. E la baronessa, in mezzo a tutto quel ben di Dio, disse al cugino: - Voglio mandarvi un paio di piccioni, per Bianca... Il poveraccio tossì, si soffiò il naso, ma non trovò neppure allora le parole da rispondere. Infine, dopo un laberinto di anditi e di scalette, per stanzoni oscuri, ingombri di ogni sorta di roba, mucchi di fave e di orzo riparati dai graticci, arnesi di campagna, cassoni di biancheria, arrivarono nella camera della baronessa, imbiancata a calce, col gran letto nuziale rimasto ancora tale e quale, dopo vent'anni di vedovanza, dal ramoscello d'ulivo benedetto, a piè del crocifisso allo schioppo del marito accanto al capezzale. La cugina Rubiera era tornata a lamentarsi del figliuolo: - Tale e quale suo padre, buon'anima! Senza darsi un pensiero al mondo della mamma o dei suoi interessi!... Vedendo il cugino Trao inchiodato sull'uscio, rimpiccinito nel soprabitone, gli porse da sedere: - Entrate, entrate, cugino Trao. - Il poveretto si lasciò cadere sulla seggiola, quasi avesse le gambe rotte, sudando come Gesù all'orto; si cavò allora il cappellaccio bisunto, passandosi il fazzoletto sulla fronte. - Avete da dirmi qualche cosa, cugino? Parlate, dite pure. Egli strinse forte le mani l'una nell'altra, dentro il cappello, e balbettò colla voce roca, le labbra smorte e tremanti, gli occhi umidi e tristi che evitavano gli occhi della cugina: - Sissignora... Ho da parlarvi... Lei, da prima, al vedergli quella faccia, pensò che fosse venuto a chiederle denari in prestito. Sarebbe stata la prima volta, è vero: erano troppo superbi i cugini Trao: qualche regaluccio, di quelli che aiutano a tirare innanzi, vino, olio, frumento, solevano accettarlo dai parenti ricchi - lei, la cugina Sganci, il barone Mèndola - ma la mano non l'avevano mai stesa. Però alle volte il bisogno fa chinare il capo anche ad altro!... La prudenza istintiva che era nel sangue di lei, le agghiacciò un momento il sorriso benevolo. Poscia pensò al fuoco che avevano avuto in casa, alla malattia di Bianca - era una buona donna infine - don Diego aveva proprio una faccia da far compassione... Accostò la sua seggiola a quella di lui, per fargli animo, e soggiunse: - Parlate, parlate, cugino mio... Quel che si può fare... sapete bene... siamo parenti... I tempi non rispondono... ma quel poco che si può... - Non molto... ma quel poco che posso... fra parenti... Parlate pure... Ma egli non poteva, no! colle fauci strette, la bocca amara, alzando ogni momento gli occhi su di lei, e aprendo le labbra senza che ne uscisse alcun suono. Infine, cavò di nuovo il fazzoletto per asciugarsi il sudore, se lo passò sulle labbra aride, balbettando: - È accaduta una disgrazia!... Una gran disgrazia!... La baronessa ebbe paura di essersi lasciata andare troppo oltre. Nei suoi occhi, che fuggivano quelli lagrimosi del cugino, cominciò a balenare la inquietudine del contadino che teme per la sua roba. - Cioè!... cioè!... - Vostro figlio è tanto ricco!... Mia sorella no, invece!... A quelle parole la cugina Rubiera tese le orecchie, colla faccia a un tratto irrigidita nella maschera dei suoi progenitori, improntata della diffidenza arcigna dei contadini che le avevano dato il sangue nelle vene e la casa messa insieme a pezzo a pezzo colle loro mani. Si alzò, andò ad appendere la chiave allo stipite dell'uscio, frugò alquanto nei cassetti del cassettone. Infine, vedendo che don Diego non aggiungeva altro: - Ma spiegatevi, cugino. Sapete che ho tanto da fare... Invece di spiegarsi don Diego scoppiò a piangere come un ragazzo, nascondendo il viso incartapecorito nel fazzoletto di cotone, con la schiena curva e scossa dai singhiozzi, ripetendo: - Bianca! mia sorella!... È capitata una gran disgrazia alla mia povera sorella!... Ah, cugina Rubiera! voi che siete madre!... Adesso la cugina aveva tutt'altra faccia anche lei: le labbra strette per non lasciarsi scappar la pazienza, e una ruga nel bel mezzo della fronte: la ruga della gente che è stata all'acqua e al sole per farsi la roba - o che deve difenderla. In un lampo le tornarono in mente tante cose alle quali non aveva badato nella furia del continuo da fare: qualche mezza parola della cugina Macrì; le chiacchiere che andava spargendo don Luca il sagrestano; certi sotterfugi del figliuolo. A un tratto si sentì la bocca amara come il fiele anch'essa. - Non so, cugino, - gli rispose secco secco. - Non so come ci entri io in questi discorsi... Don Diego stette un po' a cercare le parole, guardandola fisso negli occhi che dicevano tante cose, in mezzo a quelle lagrime di onta e di dolore, e poi nascose di nuovo il viso fra le mani, accompagnando col capo la voce che stentava a venir fuori: - Sì!... sì!... Vostro figlio Ninì!... La baronessa stavolta rimase lei senza trovar parola, con gli occhi che le schizzavano fuori dal faccione apoplettico fissi sul cugino Trao, quasi volesse mangiarselo; quindi balzò in piedi come avesse vent'anni, e spalancò in furia la finestra gridando: - Rosaria! Alessi! venite qua! - Per carità! per carità! - supplicava don Diego a mani giunte, correndole dietro. - Non fate scandali, per carità! - E tacque, soffocato dalla tosse, premendosi il petto. Ma la cugina, fuori di sé, non gli dava più retta. Sembrava un terremoto per tutta la casa: gli schiamazzi dal pollaio; l'uggiolare del cane; le scarpaccie di Alessi e di Rosaria che accorrevano a rotta di collo, arruffati, scalmanati, con gli occhi bassi. - Dov'è mio figlio, infine? Cosa t'hanno detto alla Vignazza? Parla, stupido! - Alessi dondolandosi ora su di una gamba e ora sull'altra, balbettando, guardando inquieto di qua e di là, ripeteva sempre la stessa cosa: - Il baronello non era alla Vignazza. Vi aveva lasciato il cane,Marchese, la sera innanzi, ed era partito: - A piedi, sissignora. Così mi ha detto il fattore. - La serva, rassettandosi di nascosto, a capo chino, soggiunse che il baronello, allorché andava a caccia di buon'ora, soleva uscire dalla porticina della stalla, per non svegliar nessuno: - La chiave?... Io non so... Ha minacciato di rompermi le ossa... La colpa non è mia, signora baronessa!... - Come le pigliasse un accidente, alla signora baronessa. 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